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Cos’è l’employee advocacy nel 2019? Quando il brand si racconta attraverso i social dei dipendenti

Stella Fumagalli

Tempo di lettura: 10′

[Immagine in evidenza: Apple al Gay Pride 2017; fonte immagine: https://www.iphoneitalia.com/641554/gay-pride-2017-apple]

Il concetto di employee advocacy negli ultimi anni è diventato estremamente popolare: sebbene la sua fama sia cresciuta esponenzialmente solo in tempi piuttosto recenti, la realtà è che da sempre i brand hanno puntato sulla reputazione e sulla visibilità dei propri dipendenti per potersi promuovere.

Pensiamo a chi viene assunto da un’azienda e, durante il suo primo giorno di lavoro, riceve in regalo dalla compagnia una serie di oggetti brandizzati: tazza, maglietta, penna, USB, tutto con il logo dell’azienda.

Questo gesto ha come obiettivo dare il benvenuto al nuovo arrivato? In parte sicuramente sì, ma dando modo ai lavoratori di utilizzare (in azienda e soprattutto fuori) tutta una serie di oggetti con il nostro logo facciamo in modo che chi lavora per noi diventi anche un nostro sponsor.

Ora come ora però sono tanti i modi in cui i nostri dipendenti possono diventare “portavoce” dell’azienda: scopriamo come andando a parlare della employee advocacy (nel 2019).

Cos’è l’employee advocacy nel 2019?

La reputazione di un’azienda sempre di più passa dai social network: nel nostro post sul Social Selling Index di LinkedIn abbiamo già detto che l’80% dei dirigenti su scala globale considera il personal branding del CEO di un’azienda come un elemento fondamentale per determinare il successo dell’azienda stessa.

Di certo però non è solo il CEO a dover prendersi cura della sua presenza sui social per il bene dell’azienda: la percezione di un brand può essere condizionata (negativamente o positivamente) dalle presenze social di tutti i dipendenti, perfino dai fornitori.

L’employee advocacy è quindi la pratica che porta i dipendenti di un’azienda a diffondere sui contenuti legati al brand per il quale lavorano: ai tempi dei social network, queste piattaforme sono uno dei canali principali dove fare employee advocacy.

Grazie a questa attività, se fatta in positivo, si verifica un effetto di rafforzamento della percezione del marchio agli occhi delle persone (ne avevamo parlato nel dettaglio in una faq dedicata).

Inoltre la promozione del brand da parte dei dipendenti di un’azienda permette all’impresa di raggiungere più persone: il messaggio arriva non solo a coloro che seguono direttamente l’azienda, ma anche a coloro che seguono i dipendenti.

L’employee advocacy fa leva sulle interazioni sociali per costruire la brand awareness: le persone, infatti, sono molto più portate a credere e a condividere un messaggio che arriva da amici e/o familiari (il cui parere è percepito come più genuino, obiettivo e disinteressato) rispetto a un messaggio che arriva da un esponente di un brand (percepito come di parte e interessato).

Pensiamoci un attimo: se vogliamo sapere come si mangia in un determinato ristorante saremo più propensi a credere a un amico che ci ha cenato e si è trovato benissimo anziché al proprietario del ristorante che – inevitabilmente – ci parlerà bene della sua struttura, giusto?

Cosa NON è l’employee advocacy?

Oltre a dire cos’è l’employee advocacy è importante anche dire cosa non è; quando si parla dei profili social dei dipendenti di un’azienda, infatti, è facile sbagliare (magari anche in buona fede) e dare così luogo a situazioni spiacevoli o addirittura dannose per l’azienda (o per il rapporto tra lavoratori e azienda).

Cosa bisogna quindi stare attenti a fare e a NON fare se decidiamo di cominciare un programma di employee advocacy?

  • Non possiamo e non dobbiamo obbligare i dipendenti a condividere i contenuti aziendali se non desiderano farlo
  • Dobbiamo stabilire una serie di contenuti che possono essere pubblicati e definire le informazioni che – invece – non possono essere rivelate (in questo senso è utile redigere una Social Media Policy aziendale); tuttavia, non possiamo decidere in modo assoluto i contenuti che verranno pubblicati dai dipendenti
  • Non dobbiamo chiedere ai lavoratori di promuovere i contenuti nel loro tempo libero perché durante l’orario di lavoro non è permesso utilizzare i social network (è un controsenso dannoso, e lo vedremo nel dettaglio più avanti)

Non possiamo pensare che tutti i nostri dipendenti siano adatti per fare employee advocacy: è necessario trovare alcuni “advocate” con caratteristiche specifiche

Come trovare gli “advocate” per l’employee advocacy e cosa possono pubblicare?

Gli advocate sono i dipendenti che hanno le caratteristiche giuste per essere i portavoce dell’azienda in un programma di employee advocacy.

Come abbiamo detto poco fa, infatti, non tutte le persone sono disposte a condividere sui social i contenuti del brand, senza che – per questo – siano cattivi lavoratori; un dipendente può eccellere in ciò che fa e avere ottime abilità ma – se non è attivo sui suoi profili social – non può esserci d’aiuto con l’employee advocacy su queste piattaforme.

Come capire chi si presta a essere un buon advocate dell’azienda?

  • Chi è già attivo sui social e sa come ci si muove sulle varie piattaforme
  • Chi ha un buon numero di contatti sui suoi account social e quindi può potenzialmente raggiungere un alto numero di persone
  • Chi è entusiasta / ambizioso e – magari con un po’ di formazione – può raggiungere buoni risultati

Prima abbiamo detto che – sebbene sia giusto (e saggio) dare indicazioni ai dipendenti su ciò che è utile bene pubblicare e ciò che invece va evitato (servendosi magari di una Social Media Policy e in questo articolo abbiamo fatto diversi esempi) – non possiamo però avere assoluto controllo su ciò che i lavoratori decidono di pubblicare.

Inoltre, sebbene l’obiettivo dell’employee advocacy sia quello di aumentare la brand awareness attraverso i contenuti, non dobbiamo pensare che ciò che viene pubblicato da chi lavora per noi debbano essere solo contenuti aziendali e / o orientati alla vendita.

In questo caso dobbiamo prendere spunto da ciò che si fa con il content marketing: bisogna quindi puntare su contenuti di qualità che siano legati al nostro settore e risultino utili per il pubblico, benché non siano direttamente legati al brand o alle vendite.

Prendiamo per esempio Dell, una delle multinazionale statunitensi più famose al mondo: nel suo programma di employee advocacy ai dipendenti viene suggerito di pubblicare per l’80% contenuti che siano informativi, utili o rilevanti per il pubblico di riferimento (o semplicemente interessanti per la persona che le pubblica) indipendentemente dalla loro fonte (purché sia affidabile e autorevole) e che solo il 20% delle pubblicazioni riguardino direttamente l’azienda.

Quali sono i vantaggi dell’employee advocacy per le aziende?

Abbiamo visto cos’è e cosa non è l’employee advocacy; abbiamo anche detto che è importante per la brand awareness di un’azienda. Tuttavia migliorare la reputazione di una marca non è l’unico vantaggio di un programma di employee advocacy che può portare:

Quest’ultimo punto potrebbe sembrare secondario rispetto a quelli precedenti; tuttavia è importante ricordare che sono sempre più diffuse le aziende officeless, che non hanno quindi un ufficio / sede fisica ma dove ogni dipendente lavora da remoto utilizzando la postazione che più gli piace o gli conviene (da casa, da un coworking, etc.) da qualsiasi angolo del mondo.

In questa situazione è importante agevolare un collante che possa stimolare il senso di appartenenza ad una stessa azienda e anche l’employee advocacy può aiutare.

Cultura aziendale: le basi dell’employee advocacy

Non possiamo (e non dobbiamo) obbligare i nostri dipendenti affinché condividano contenuti relativi all’azienda: dobbiamo rispettare la loro volontà di non prendere parte ad un programma di employee advocacy sebbene abbiano magari tutte le potenzialità per essere degli ottimi advocate.

Quello che possiamo fare però (e che dovremmo comunque fare indipendentemente dall’employee advocacy) è creare, stimolare e favorire una cultura aziendale che porti i dipendenti a desiderare di farsi portavoce dell’azienda.

Le persone sono infatti più portate a parlare bene e a esporsi a favore dell’azienda per la quale lavorano se c’è un ambiente favorevole (condizioni vantaggiose, fiducia, flessibilità, meritocrazia, etc.); il 79% dei millenial si sente sottovalutato al lavoro perché i loro sforzi e il loro impegno non vengono riconosciuti.

Prima abbiamo detto che è un controsenso voler portare avanti un programma di employee advocacy e, allo stesso tempo, proibire l’uso dei social in azienda; non si tratta di un controsenso unicamente perché è ingiusto chiedere di far crescere l’azienda condividendo i suoi contenuti solo fuori dall’orario lavorativo ma, più in generale, restringere l’accesso alle piattaforma social dà ai nostri impiegati un messaggio chiaro: non mi fido di come impieghi il tuo tempo in azienda.

Eppure una persona potrebbe essere attiva sui suoi profili social e comunque rendere al massimo nelle ore lavorative: bisogna quindi cominciare a giudicare una persona dai risultati effettivi, lasciandola nelle condizioni di gestire il proprio tempo.

Senza contare che il modo in cui un’azienda decide di gestire la possibilità dei dipendenti di connettersi ai social network ha un impatto importante sulla percezione dell’azienda stessa e sul desiderio di lavorarci: il 56% dei millenial rifiuterebbe un lavoro dal quale non può accedere ai social e il 33% preferirebbe avere la libertà di accedere ai social piuttosto che uno stipendio più alto.

Come incentivare la cultura aziendale per l’employee advocacy

Riconoscere gli sforzi dei dipendenti e dare loro fiducia e libertà sono abitudini fondamentali per la cultura aziendale ma non sono le uniche azioni che si possono intraprendere; è altrettanto importante:

  • creare occasioni di condivisione in azienda: team building, viaggi, eventi sportivi… tutte quelle iniziative che spontaneamente viene voglia di fotografare / raccontare / condividere; attenzione però, stiamo mostrando l’azienda: se c’è qualcosa che non va lo stiamo esponendo agli occhi di tantissime persone
  • partecipare a iniziative benefiche / di solidarietà (ad esempio come quando Google, Microsoft, Apple, etc. partecipano ai vari Pride)
  • fornire ai dipendenti materiale di valore da raccontare, che viene voglia di condividere spontaneamente (probabilmente i dipendenti della Virgin sono contenti di condividere i contenuti di valore creati da Richard Branson senza che venga loro richiesto espressamente).

Chi si occupa dell’employee advocacy in azienda?

Se fatta bene, l’employee advocacy in azienda riguarda un po’ tutti: dal CEO e gli esecutivi C-Level che si devono occupare di fare personal branding passando per risorse umane e marketing fino ad arrivare all’ufficio legale e all’IT.

Sebbene sia davvero un lavoro di squadra, ci sono dei ruoli che vengono coinvolti in maniera più sostanziale quando si decide di implementare un programma di employee advocacy in azienda; ecco quali sono:

Ruolo delle risorse umane nell’employee advocacy

Chi si occupa di risorse umane ha un ruolo centrale nell’employee advocacy e nel favorire un clima dove le persone si sentano motivate e felici.

Le risorse umane aiutano a stabilire la cultura aziendale e a trasmetterla ai lavoratori offrendo opportunità di sviluppo e aiutando i dipendenti di un’azienda ad adattarsi al loro ruolo o a poter fare meglio fornendo tutta una serie di informazioni e strumenti per sviluppare le abilità che vengono richieste.

Ruolo del Social Media Manager nell’employee advocacy

L’employee advocacy è strettamente legata all’uso dei social network; per questo il Social Media Manager è fondamentale.

E’ questa figura, infatti, a redigere la Social Media Policy a cui i dipendenti devono attenersi nelle loro comunicazioni sui profili social, ed è sempre lui/lei che può dare consigli sul modo migliore di comunicare determinati contenuti, le piattaforme più adatte per farlo, etc.

Ruolo dell’IT

Chi lavora nell’IT può assistere i dipendenti nella scelta degli strumenti di lavoro da utilizzare per l’employee advocacy (ad esempio quelli per programmare le segnalazioni social o per fare social listening).

Tool per gestire e monitorare i programmi di employee advocacy

Le aziende più strutturate possono servirsi di programmi per la gestione delle pubblicazioni social sia sui profili aziendali sia su quelli dei dipendenti (dando loro l’accesso a questi strumenti in forma gratuita).

Questi strumenti non servono solo per programmare le pubblicazioni (e quindi decidere in anticipo di pubblicarle a una certa ora di un certo giorno su diverse piattaforme anche se non si è materialmente presenti davanti al PC o allo smartphone) ma anche per monitorare e valutare i risultati ottenuti.

Tra i tanti strumenti a disposizione ne citiamo uno legato a uno dei social network più importanti: parliamo di LinkedIn Elevate.

LinkedIn Elevate è una sorta di piattaforma di content curation per le aziende: permette di selezionare e raccogliere contenuto potenzialmente utile (articoli, post, presentazioni, video, etc.) e mandarlo ai dipendenti in modo automatico.

Il personale può accedere al contenuto e condividerlo direttamente sui profili social personali, con indicazioni sui momenti di maggiore attività delle varie piattaforme.

In conclusione

Ricapitolando, quali sono gli step da intraprendere se vogliamo integrare in azienda un programma di employee advocacy?

1. Far sapere ai dipendenti cosa sta facendo l’azienda. Nel passato a questo scopo si utilizzavano gli house organ (pubblicazioni cartacee di carattere periodico che servivano per tenere al corrente i dipendenti riguardo le attività dell’azienda); oggi si possono utilizzare gli strumenti di enterprise social networking come Slack o Workplace by Facebook
2. Agevolarli proponendo loro materiale facilmente condivisibile
3. Aiutarli con indicazioni chiare su cosa si può / non si può condividere
4. Dare ai dipendenti degli strumenti per gestire l’attività social
5. Tenere sotto controllo le conversazioni che possono riguardare l’azienda in rete e fuori e dialogare in maniera intelligente nella gestione di eventuali incidenti o situazioni spiacevoli, reagendo con fermezza a situazioni particolarmente negative (come in questo caso), ma sapendo anche quando ragionare insieme su cosa è stato fatto e dare una seconda chance
6. Coinvolgere i dipendenti in iniziative social, anche ad-hoc; ad esempio se l’azienda organizzasse una raccolta di rifiuti al parco o sulla spiaggia si può prevedere un hashtag specifico che accompagni le condivisioni ed i racconti di chi partecipa (queste iniziative devono però sempre essere coerenti con i valori aziendali: non ha senso organizzare una raccolta rifiuti se poi in ufficio non si fa la raccolta differenziata o si abusa di imballaggi usa e getta)
7. Formazione e gamification: è importante aiutare i dipendenti a muoversi meglio sui social, anche magari solo insegnando loro a riconoscere le fake news ed evitare di diffonderle, coinvolgendoli in programmi di formazione magari anche con forme di gamification. Non deve però essere qualcosa di forzato.

Prima di imbarcarsi in un progetto di employee advocacy chiaramente un’azienda dev’essere certa che, al suo interno, vengano rispettate tutte le norme legali ed etiche. Lasciare che siano i lavoratori a promuovere il brand significa esporsi maggiormente e quindi essere più vulnerabili: per questo è necessario assicurarsi che non siano presenti situazioni che possano mettere a repentaglio la credibilità dell’azienda e di chi ci lavora.