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Brand journalism: come far crescere la brand awareness attraverso il dialogo con il mercato

Stella Fumagalli

Tempo di lettura: 10′

In un nostro precedente approfondimento sulle Digital PR abbiamo visto che una delle attività delle pubbliche relazioni digitali consiste nello stare in contatto con media e giornalisti che potrebbero essere interessati a raccontare la nostra storia.

Se, da una parte, è vero che le testate giornalistiche (online e non) possono aiutarci ad aumentare la nostra visibilità, dall’altra parte non è sempre facile stare in contatto con i giornalisti o riuscire a ottenere la loro attenzione.

Ci troviamo però in un’epoca in cui non è necessario aspettare che qualcun altro pubblichi i contenuti per noi; oggi praticamente qualsiasi individuo può diventare l’editore di sé stesso grazie alle risorse di internet.

Attraverso strumenti come WordPress, infatti, con un minimo di dimestichezza qualsiasi persona è in grado di aprire un blog o imbastire un sito internet basico – con alcuni limiti e alcune condizioni – in pochissimo tempo e in maniera completamente gratuita (anche piattaforme come Medium o LinkedIn con la sua funzionalità Pulse ci permettono di pubblicare contenuti gratis e in pochi secondi).

Se lo possono fare i singoli individui, a maggior ragione ne sono capaci i brand (che di solito dispongono di maggiori risorse per la comunicazione): sono quindi sempre di più le aziende che decidono di diventare delle media company – ovvero realtà che si occupano della comunicazioni su diversi canali, sia tradizionali che digitali – prendendosi loro stesse la briga di raccontarsi e raccontare ciò che accade nel loro settore d’attività attraverso il brand journalism (conosciuto anche come giornalismo d’impresa o giornalismo aziendale).

Cos’è il brand journalism e perché lo si fa?

Il giornalismo d’impresa è quel giornalismo che ha a che vedere con la comunicazione che riguarda, appunto, un brand o un’impresa.

Attraverso il brand journalism viene raccontata la storia dell’azienda, il suo mondo, il contesto in cui si muove: la narrazione ha il punto di vista dell’azienda, è lei infatti che passa a produrre in modo indipendente contenuti che possono interessare il suo pubblico di riferimento.

Abbiamo detto che una delle motivazioni che spinge le imprese a fare brand journalism è poter pubblicare notizie e approfondimenti senza aspettare che siano i giornalisti a farlo; a volte però le aziende decidono di pubblicare attivamente contenuti dal taglio editoriale perché gli articoli pubblicati dai media tradizionali riguardo ai temi di interesse per l’azienda sono pochi o di scarsa qualità.

Quindi alcune aziende decidono di aggiungere al loro organico veri e propri giornalisti con il compito di produrre articoli e storie dal taglio editoriale che riguardino l’azienda stessa ma anche – più in generale – il settore in cui opera; altre imprese arrivano a montare piccoli studi di registrazione all’interno dell’azienda per poter creare video, presentazioni, etc.

Altre realtà optano per creare siti web indipendenti – e quindi slegati dalla loro pagina web aziendale – per dedicarli esclusivamente ai contenuti e agli articoli del giornalismo d’impresa (più avanti in questo approfondimento faremo alcuni esempi).

Grazie al brand journalism un’azienda può addirittura rafforzare l’interesse del pubblico verso una determinata categoria merceologica: per fare un esempio prendiamo il vino, ma lo stesso discorso varrebbe praticamente per qualsiasi altro prodotto.

Siamo un’azienda vinicola e cominciamo a produrre contenuti che riguardano il vino, andando oltre al prodotto in sé: possiamo costruire storie che girino intorno al piacere di assaporare un buon vino, delle amicizie che si creano (o si ritrovano) davanti a un bicchiere di vino, del vino in relazione con il territorio, come distinguere un vino che è di qualità perché ha seguito un determinato processo produttivo, i vini più indicati per accompagnare determinati cibi, etc.; in questo modo potremmo rendere alcune delle persone che ci leggono consumatori più consapevoli che cominceranno a preferire un vino di maggiore qualità (magari scegliendo proprio il nostro, magari no).

La maggior parte delle aziende, poi, è abituata a dialogare con il mercato attraverso comunicazioni puramente commerciali (la classica pubblicità): uno dei problemi di questa risorsa comunicativa è che le persone tendono ad essere sempre più scettiche riguardo a qualsiasi contenuto che arrivi direttamente da un brand e che, in linea generale, viene visto come un mezzo per manipolare la nostra opinione e spingerci a comprare.

I contenuti che hanno un taglio editoriale, invece, vengono percepiti come più neutri, più credibili e quindi le persone sono più propense a dedicarvi tempo, condividerli, etc.

Il brand journalism, quindi, si basa sulla produzione di contenuti di valore che interessino il nostro pubblico di riferimento: ma questo non si chiama content marketing?

Differenza fra content marketing e brand journalism

Il content marketing è quella tipologia di marketing che mette in atto tutta una serie di azioni il cui scopo è creare e distribuire contenuti di valore e interessanti per attirare e mantenere un pubblico specifico con il fine ultimo di ottenere un ritorno commerciale.

E’ quindi vero che il content marketing ha in comune con il brand journalism la creazione di contenuti di qualità e utili per determinati interlocutori; anche il risultato può essere lo stesso: fiducia, credibilità e autorevolezza di un brand agli occhi degli utenti.

Dove sta allora la vera differenza fra content marketing e brand journalism? Per trovarla bisogna cercare fra gli obiettivi che si vogliono raggiungere: nel content marketing lo scopo dei contenuti è avere un ritorno commerciale (vendere o generare contatti), i contenuti sono quindi spesso “la spintarella finale” che motiva la decisione di un potenziale cliente a compiere una determinata azione, o sono comunque il mezzo che accompagna l’utente lungo un percorso che si conclude con un’azione a favore dell’azienda.

Nel brand journalism, invece, i contenuti sono finalizzati principalmente a creare e promuovere la brand awareness, ovvero il livello di consapevolezza che i consumatori hanno nei riguardi di un brand (non solo la brand image – l’idea che un consumatore si fa nel tempo riguardo alla personalità di un’azienda) e dei suoi prodotti o servizi.

Con il giornalismo di impresa quindi non ci si aspetta un ritorno economico diretto dalla pubblicazione dei contenuti (anche se non è detto che poi non si verifichi, anzi!), l’obiettivo principale è la pubblicazione e diffusione di storie a cui difficilmente i media tradizionali darebbero spazio.

Un momento però: stiamo parlando di giornalisti che pubblicano storie o articoli dal punto di vista dell’azienda… Ma questo non è (anche) native advertising?

Differenza fra native advertising e brand journalism

Il native advertising è pubblicità che viene sottoposta sottoforma di contenuti la cui tipologia può cambiare a seconda della piattaforma sulla quale vengono pubblicati e distribuiti: si può trattare di articoli di giornale, video, presentazioni, articoli di blog, post sui social media, etc.

Uno degli esempi meglio riusciti di native advertising vede come protagonisti Netflix e il New York Times: nel 2014 venne pubblicato sul New York Times un bellissimo reportage che attraverso testi, video e audio presentava la situazione delle carcerate femmine negli Stati Uniti.

Questo reportage però fu commissionato da Netflix in occasione dell’uscita della seconda stagione della serie “Orange is the New Black” (show originale Netflix ambientato in un centro di detenzione per sole donne).

Si tratta, come dicevamo, di un esempio particolarmente ben riuscito di native advertising: non solo il reportage è interessante, ben fatto e apparentemente slegato da Netflix (il nome della compagnia di streaming appare solo una volta in tutto l’articolo) ma riuscì davvero nell’obiettivo di incuriosire i lettori e spingerli a guardare “Orange is the New Black.

Anche qui quindi vediamo un rapporto tra brand e giornalisti per produrre contenuto di valore, per creare un dialogo con il mercato e suscitare interesse nel pubblico di riferimento: se questi elementi sono presenti anche nel brand journalism, cosa lo differenzia dal native advertising?

Sostanzialmente la differenza sta nella piattaforma che si utilizza per distribuire i contenuti: il brand journalism produce e pubblica contenuti attraverso il sito dell’azienda, il suo blog o comunque utilizzando piattaforme e strumenti che appartengono all’impresa; nel native advertising invece il contributo brandizzato rimane fuori dai media che la compagnia possiede.

Chi è il brand journalist e cosa fa?

Chi si occupa del giornalismo aziendale è il brand journalist: abbiamo detto che alcune aziende assumono direttamente giornalisti per occuparsi della produzione di contenuti ma non è strettamente necessario che sia un giornalista iscritto all’albo ad occuparsi del brand journalism; può essere anche un web editor, un copy, uno storyteller… Insomma, una persona che sia in grado di creare contenuti di qualità e di farlo usando uno stile editoriale.

Chi è abituato a fare content marketing (copywriter e web editor, per esempio) potrebbe avere qualche difficoltà nei primi approcci con il brand journalism: è importante infatti tenere a mente che non si sta più scrivendo per promuovere un prodotto o un’azienda ma per poter raccontare ciò che riguarda un’impresa e il settore in cui opera dal suo punto di vista ma senza un fine meramente commerciale (nulla toglie che di riflesso ci possa essere un ritorno commerciale, ma non è questo l’obiettivo primario).

Cosa deve (o dovrebbe) fare quindi un brand journalist?

  • scrive tenendo a mente chi è il suo pubblico di riferimento (cosa interessa agli interlocutori dell’azienda? Cosa li preoccupa, cosa è importante per loro?)
  • fa storytelling e sa come scrivere una storia memorabile
  • non fa post commerciali
  • dà un’opinione, non rimane oggettivo: percepire uno schieramente è importante per il pubblico che si può identificare maggiormente con ciò che viene detto o, comunque, percepire il valore aggiunto
  • si basa sui fatti, scrive consultando fonti autorevoli e le cita nell’articolo
  • è trasparente (o almeno dovrebbe esserlo)
  • ammette eventuali errori, suoi o del brand (o almeno dovrebbe farlo)

Parlando di brand journalism ci stiamo concentrando sulla produzione di contenuti testuali ma un ruolo sempre più centrale ormai è occupato dai video e molto importanti sono anche i dibattiti o le conferenze che riguardano temi specifici e che possono condizionare l’opinione pubblica.

Pensiamo di essere un brand che produce modem e router: il nostro obiettivo è quello di introdurre una norma che permetta alle persone di scegliere liberamente con che modem connettersi a internet senza che la aziende di telecomunicazioni possano imporre il loro.

Vogliamo quindi che vengano prodotti contenuti riguardo a questo argomento e – per farlo – coinvolgiamo esperti, economisti, politici (realizzando interviste, dibattiti, etc.): in questo modo possiamo cercare di alzare il livello di attenzione sul tema fino a far cambiare la legge esistente a favore di ciò che ci eravamo proposti; lavorando sull’opinione pubblica per portare un cambiamento in positivo per tutti anche noi ne beneficiamo come azienda.

Nel quadro appena delineato il brand journalism è una risorsa a disposizione di chi si sta occupando di una vera e propria attività di lobbying; abbiamo fatto un esempio in positivo ma la realtà può essere ben diversa: ci si auspica che il brand journalism sia etico, purtroppo però non sempre è così.

Brand journalism: etica e responsabilità sociale

Il brand journalist non per forza parla di tutto quello che succede in azienda o di quello che realmente l’azienda fa (o ha fatto) per arrivare ad essere quella che è; abbiamo visto spesso difficoltà anche per realtà internazionali quando arriva il momento di fare scelte difficili (ad esempio quando gli impiegati di Google protestarono contro la decisione di realizzare per la Cina una versione censurata del motore di ricerca).

Con il giornalismo d’impresa si costruisce una narrativa e lo si fa dal punto di vista dell’azienda: in questo le grandi realtà hanno una responsabilità enorme perché la loro narrativa può davvero fare la differenza.

Tornando a Google, pensiamo a quando racconta ciò che sta facendo per l’ambiente, le iniziative che prende, gli strumenti che usa: con il suo esempio e il suo racconto è davvero in grado di influenzare ciò che pensano (e quindi fanno) gli altri.

Quando il Google e la Apple di turno dichiarano di andare in una determinata direzione inevitabilmente il loro comportamento ha un impatto sull’opinione pubblica; anche senza essere colossi internazionali, il brand journalism è utile anche per le realtà più piccole per portare fuori quell’insieme di valori che – magari- restano applicati ma non raccontati, e che quindi non vengono espressi in tutto il loro potenziale.

Dalle parole ai fatti: 7 esempi di brand journalism

Ora che abbiamo visto cos’è il brand journalism, a cosa serve e cosa lo differenzia da content marketing e native advertising è arrivato il momento di fare qualche esempio; ecco il giornalismo d’impresa messo in pratica!

1) The Furrow (Deere & Company)

Era il 1895 quando l’azienda di macchine agricole statunitense Deere & Company pubblicò il primo numero di “The Furrow”, una rivista sul mondo dell’agricoltura.

E’ considerato come il primo esempio di brand journalism e, ancora oggi, “The Furrow” ha milioni di lettori in tutto il mondo.

2) Red Bulletin (Red Bull)

Il magazine online della celebre bibita energetica si rivolge al suo pubblico di riferimento (giovani maschi) con articoli e approfondimenti su personalità dello sport e dello spettacolo.

3) CMO.com (Adobe)

CMO offre contenuti relativi al marketing grazie a report dettagliati, interviste, collaborazioni e molto altro; si rivolge a professionisti del marketing con l’obiettivo di aiutarli nella scoperta e nell’impiego delle tecnologie digitali.

4) GE Reports (General Electric)

General Electric è una multinazionale statunitense che opera nel campo dei servizi e della tecnologia: attraverso il portale GE Reports pubblica storie, notizie e approfondimenti dal mondo dell’innovazione, della scienza e della tecnologia.

5) Health Essentials (Cleveland Clinic)

Si tratta della piattaforma di divulgazione medica e scientifica del centro medico Cleveland Clinic in Ohio; offre notizie ed approfondimenti sul mondo della medicina e della salute.

6) Eni Day (Eni)

Lo slogan è “L’energia è una bella storia”; in questo portale Eni si concentra proprio sulle storie legate all’uso della tecnologia applicata al mondo dell’energia e dello sviluppo sostenibile.

7) italiani.coop (Coop)

Rubriche, speciali, approfondimenti, sondaggi, ricerche, infografiche e molto altro sugli italiani, le loro abitudini e i loro consumi elaborati e pubblicati da una delle più importanti realtà nella distribuzione alimentare in Italia.

In conclusione

Se è vero che brand journalism, content marketing e native advertising non sono la stessa cosa è anche vero che l’importanza della creazione di contenuti da parte delle aziende si riconferma come un elemento che non può essere trascurato.

Abbiamo spesso parlato della difficoltà delle aziende italiane nel raccontarsi: il nostro Paese è un serbatoio di eccellenze che molto spesso perdono l’opportunità di condividere con il loro pubblico ciò che sono in grado di fare, con tutte le conseguenze del caso.

E’ comprensibile che una piccola azienda si senta scoraggiata nel paragone con i grandi colossi che abbiamo menzionato in questo articolo o pensi di non avere le risorse a disposizione per fare brand journalism: come abbiamo detto tante altre volte per molte azienda non c’è bisogno di investimenti da capogiro per cominciare a raccontarsi.

Si può iniziare a un ritmo compatibile con le risorse che l’azienda ha a disposizione: pochi contenuti ma costanti nel tempo possono fare la differenza se arrivano al pubblico giusto!

L’importante, come sempre, è farlo bene: soprattutto se le nostre risorse sono limitate dobbiamo trarre il massimo vantaggio dai nostri sforzi e renderli dei veri investimenti.