Cosa fanno gli italiani per circa 5 ore al giorno (4,7 per l’esattezza)? Stanno fermi in coda? Dormono? Stanno sotto la doccia cercando il significato della vita? Probabilmente sì, ma non ci riferiamo a nessuna di queste cose: 4,7 sono le ore che mediamente i nostri connazionali passano navigando su internet, stando ad un report del 2014 di We Are Social (che si riferisce però a dati del 2013).
Del totale delle ore giornaliere passate online, poi, due (quasi il 50%) le dedichiamo all’uso dei social media: è una bella percentuale! Ma si fa in fretta ad arrivarci: ci colleghiamo mentre siamo sui mezzi per andare al lavoro (o in macchina, se siete tra quelli di cui abbiamo parlato prima che passano una vita in coda), la sera mentre siamo sul divano e in TV non fanno niente di bello e, magari, anche dall’ufficio.
Perché diciamo magari? Se state leggendo questo articolo perché vi interessate di social media (e ve ne interessate davvero, al di là di saper andare su Instagram per pubblicare la #picoftheday) probabilmente – per non dire sicuramente – siete abituati a lavorare mentre avete sotto gli occhi i vostri profili di Facebook, Twitter, Google + e LinkedIn mentre con lo smartphone gestite gli account aziendali (o viceversa).
Nonostante i social network siano strumenti ormai affermati, purtroppo tante aziende ancora non riescono a vederne l’utilità e li considerano solo come fonti di distrazione per i propri dipendenti. Qual è la soluzione che adottano queste realtà per evitare che la produttività cali a causa del troppo tempo passato a guardare i social network invece che a lavorare? Bloccare l’accesso alle piattaforme social dai pc aziendali.
Chi è abituato a parlare al telefono con i clienti mentre con una mano compila un foglio Excel e con l’altra pubblica su Pinterest la foto della torta di mele fatta la sera prima di sicuro starà inorridendo: davvero esiste chi impedisce ai propri dipendenti di andare sui social? Non c’è tanto da stupirsi dato che social media e lavoro (anzi, social media al lavoro) è sempre stata una questione alquanto spinosa: nonostante il 90% delle aziende siano presenti sulle piattaforme social per motivi professionali ci sono ancora tante realtà convinte che – se ai propri dipendenti venisse data la possibilità di navigare liberamente dalla loro postazione – l’azienda ne risentirebbe negativamente.
Prendiamo alcuni dati che arrivano dagli USA: se nel 2012 le aziende che bloccavano l’accesso ai social media erano il 29%, nel 2014 hanno raggiunto il 36%, dimostrando una tendenza inversamente proporzionale alla diffusione delle piattaforme social come strumenti di marketing aziendali. Ma davvero allora si tratta solo di una questione di produttività?
Se così fosse, forse, basterebbe mettere sotto al naso dei manager alcuni di quegli studi che dimostrano come il poter navigare sui social network durante l’orario di lavoro non determina un calo di produttività dei dipendenti ma, al contrario, ne provoca l’aumento.
Il motivo è presto svelato: chi ha la possibilità di dare una sbirciata a Twitter o a Facebook (per menzionarne un paio) mentre lavora riesce a rendere meglio e di più di chi non può permettersi queste brevi distrazioni semplicemente perché “staccare” brevemente il cervello da ciò che si sta facendo ci aiuta a riprendere più freschi e più concentrati. A lavorare meglio, insomma.
Ok, a questo punto la scusa della produttività non regge più. C’è qualcos’altro dietro all’ostilità che alcune realtà sembrano nutrire nei confronti dei social network? Beh, è innegabile che queste piattaforme hanno reso molto più sottile e difficilmente percettibile il confine tra il pubblico ed il privato. Ne abbiamo sentiti tanti, di casi di social fail (ovvero di figuracce – che a volte hanno causato vere e proprie crisi – che nascono sui social network): dal dipendente che twitta gli affari suoi col profilo aziendale, a quello che viene licenziato perché beccato a lamentarsi del suo capo su Facebook, ai cuochi di Burger King che pubblicano foto coi piedi nell’insalata che avrebbero servito di lì a poco facendo crollare la percezione positiva del brand… Insomma, se non si sta attenti sui canali social si rischia di fare un bel casino e, da una parte, può essere comprensibile che i datori di lavoro non vogliano correre il rischio.
Sul fatto che sia un timore comprensibile non ci piove, ma che la soluzione a questo problema sia impedire l’accesso ai social media in azienda mi sembra alquanto discutibile: se un mio dipendente volesse parlare male di me su Facebook (e se gli impedissi di navigare liberamente forse ne avrebbe ragione) potrebbe farlo una volta arrivato a casa o addirittura in azienda ma attraverso il suo smartphone (sempre che la politica aziendale non vieti anche l’uso degli smartphone. No, non è fantascienza, posti così esistono, e ce ne sono anche un bel po’)!
Insomma: sia che la scusa sia la produttività sia che riguardi il desiderio di tutelarsi da eventuali social fail, sembra chiaro e palese che la soluzione non è quella di impedire ai dipendenti di collegarsi alle piattaforme social e che, soprattutto, arrivati a questo punto è assurdo e controproducente vedere i social media come uno strumento diabolico e non come un canale che apre moltissime porte.
Ormai rappresentano un mezzo di comunicazione importantissimo per le imprese e se scegliere di non esserci da una parte ci protegge contro il rischio di brutte figure, dall’altra ci fa anche perdere un sacco di opportunità.
Infatti dal report di We Are Social che abbiamo menzionato all’inizio dell’articolo, vediamo che il 37% degli italiani ha scoperto nuovi brand dopo aver letto commenti pertinenti sui forum o sui social network ed il 34% interagisce con il brand stesso sempre attraverso i canali social: se vi sembrano percentuali già importanti, pensate che sono dati riferiti al 2013 e che quindi, molto probabilmente, in questi anni i valori sono aumentati.
Mi sembra particolarmente significativo il dato sull’interazione con il brand: ormai per tante aziende l’assistenza clienti non è più solo il vecchio e caro call center, ma si è spostata sulle pagine social: per gli utenti infatti, poter comunicare in maniera più immediata con il marchio per ricevere risposte e aggiornamenti rapidi è impagabile.
Siccome poi i social network sono anche un ottimo mezzo per avere su una stessa piattaforma (di facile fruizione per la maggior parte delle persone) le richieste di varia natura degli utenti, sono contesti che si prestano perfettamente ad essere “impiegati” come canali per il costumer care, e qui si comincia a parlare di social media care (ovvero il costumer care via social media).
Qualche anno fa, quando c’è stato il boom dei social network, non si pensava che questi strumenti potessero avere un’utilità effettiva come anello di congiunzione tra l’utente e il brand: ora però si è visto che invece è un ruolo che svolgono in maniera ottimale.
E’ anche vero che un team di social media care (che preferibilmente dovrebbe gestire un canale social diverso dal profilo generico del brand, uno dedicato esclusivamente all’assistenza clienti), deve rispettare alcune regole: d’altra parte, anche se è un canale relativamente nuovo, si tratta sempre di assistenza clienti e in quanto tale dev’essere rapida, chiara ed efficiente, e lo staff che se ne occupa dev’essere preparato e seguire delle linee guida (lo specifico perché talvolta quando si parla di social si ha la sensazione che siano canali meno “seri” e che si possa andare allo sbaraglio, niente di più sbagliato).
Inoltre, è ampiamente dimostrato che le aziende con una forte presenza social, quelle che si impegnano nel rispondere agli utenti in maniera veloce ed esauriente, sono molto meglio percepite rispetto a quelle che non risultano attive su questo fronte.
Mettiamo quindi di aver esposto tutti questi concetti a uno di quei “capi” che vedono i social network come uno strumento diabolico: gli abbiamo fatto capire che se i suoi dipendenti ogni tanto sbirciano Facebook o mandano un tweet la sua azienda non va incontro al fallimento (anzi), e siamo riusciti a mettergli in testa anche che l’essere presenti sui social al giorno d’oggi per un’impresa è di vitale importanza.
Ha capito tutto, sì, ma gli rimane un dubbio: come fare per evitare i famigerati social fail? Come comunicare ai dipendenti quello che si desidera e non si desidera pubblicare sulla pagina Facebook aziendale? Come tutelare la propria azienda e la sua reputazione dalle figuracce, insomma?
Spezziamo una lancia a suo favore questa volta e riconosciamo che il dubbio è più che lecito, anzi, per un’azienda lanciarsi allo sbaraglio nel mondo social senza un minimo di piano editoriale, strategia, regole prestabilite e conoscenza del mezzo è un’azione potenzialmente kamikaze.
Il nostro timoroso amico ha quindi ragione nell’essere cauto e nel pensare che, in questi come in molti altri casi, prevenire è meglio che curare. Ma in questo frangente una soluzione c’è, perché vengono in nostro aiuto le Social Media Policy (SMP). Di cosa si tratta? In sostanza con questa espressione si fa riferimento a una serie di regole di comportamento rivolte a diverse figure che si trovano a dover interagire con i canali social dell’azienda (poco più avanti vedremo infatti che ce ne sono di diverso tipo, a seconda del destinatario).
Possiamo dire quindi che è una sorta di manuale d’uso aziendale per sapersi muovere nel mondo social nella maniera che l’azienda ritiene più giusta e più in linea con i suoi valori, per avere dei riferimenti che siano comuni a tutti (dipendenti, collaboratori, fornitori, etc.) e per chiarire quali sono le opportunità che i social media offrono in ambito aziendale.
Ma torniamo al discorso che abbiamo iniziato un attimo fa; come ho già accennato, le SMP si dividono generalmente in tre macrocategorie, a seconda dei destinatari a cui si rivolgono:
1 – Social Media Policy per le figure che all’interno dell’azienda si occupano della gestione dei social media, ovvero i dipendenti o il team di social media specialists che parla a nome dell’azienda attraverso i suoi canali social.
Tra queste figure troviamo anche quella del social media manager, ovvero colui o colei che cura la presenza dell’azienda sui social e ne stabilisce la strategia e che è quindi responsabile della comunicazione aziendale tramite le piattaforme social attraverso cui deve rafforzare la brand awareness e creare dei rapporti di fiducia tra i clienti e l’azienda.
Questa prima tipologia di SMP serve per dare delle linee guida rispetto all’uso delle piattaforme social in ambito aziendale: può contenere delle direttive da seguire nel caso della pubblicazione di informazioni confidenziali (sia se si usa l’account aziendale, sia attraverso il proprio profilo personale), può aiutare a chiarire la differenza tra il proprio profilo privato (personale) e quello pubblico (aziendale) e le conseguenze che ciò che viene pubblicato su uno possono avere sull’altro, e può anche includere qualche regola basata sul buon senso (quando si scrive usare sempre le buone maniere, non prendere parti a liti o fare gli “attaccabrighe” utilizzando il profilo aziendale, etc.).
Scritta bene, a parer mio, è quella di BestBuy: mette in guardia i propri dipendenti da possibili rischi facendoli riflettere sulle proprie azioni: “Protect Yourself”, “Act responsibly and ethically”, “Honor Our Differences”, etc.
2 – Social Media Policy rivolta a dipendenti, fornitori, collaboratori esterni che si interfacciano con i canali social dell’azienda e che – anche dai loro profili personali – sono tenuti a rimanere in linea con i valori dell’azienda con cui collaborano.
Facciamo un esempio: Mario è un fornitore di microfibra per un’azienda che fabbrica scarpe vegane, quindi prodotte con materie prime ecosostenibili e senza alcuna origine animale.
Se Mario, nel suo tempo libero, andasse a caccia in una zona dove questa pratica è contemplata, l’azienda (se ne fosse al corrente) potrebbe essere più o meno d’accordo ma non potrebbe impedirglielo.
Può impedirgli però di pubblicare sul suo profilo personale le foto che lo ritraggono in posa accanto ai suoi trofei?
Sì, perché se la relazione lavorativa tra questa persona e l’azienda di scarpe vegano dovesse venire alla luce, l’azienda ne risentirebbe parecchio in termini di credibilità.
3 – Social Media Policy rivolta ai clienti e al pubblico: qui troviamo una serie di norme atte a regolare il rapporto tra azienda e utenti/clienti, questi ultimi infatti sono invitati a rispettare alcune regole, come vediamo dalla SMP di Walmart nella sezione “Walmart’s Facebook Engagement Guidelines”:
“Keep it real. All wall postings should come from a real person and Facebook profile. Postings from fake or anonymous profiles will be deleted when discovered.”
Quindi la catena invita i propri utenti ad interagire identificandosi, scrivendo da un profilo reale; se il messaggio viene pubblicato da un profilo falso o anonimo, e la catena se ne accorge, questa è autorizzata a cancellarlo.
Social media manager, dipendenti, collaboratori, risorse umane… Insomma, chi può (o deve) occuparsi della presenza social di un’azienda? Per ora la figura del social media manager non è ancora così diffusa e a farne le veci sono generalmente dipendenti interni (per esempio dell’ufficio marketing) o collaboratori esterni (magari agenzie che curano le presenze internet).
L’assenza (o meglio la non conoscenza dell’esistenza) di una figura univoca che si occupi della presenza social di un’azienda significa che chiunque può farsene carico? Di certo no. A una prima (e frettolosa) analisi potrebbe sembrare che l’opzione più intelligente sia quella di affidare questo compito a un dipendente: un po’ perché così “rimane tutto in famiglia” e non c’è bisogno di pagare un’altra persona per questo lavoro, un po’ perché lavorando in azienda di certo ne saprà di più lui che un qualsiasi collaboratore esterno.
Ma è proprio qui che molto spesso ci si sbaglia: certo, magari tra i dipendenti di un’azienda si nasconde una social star con migliaia di follower su YouTube e, sempre magari, il tono che è abituata a usare risulta anche compatibile col tono che l’azienda vorrebbe adottare per la sua comunicazione social. Magari…
Purtroppo però, la maggior parte delle volte, senza un training specifico (e a volte anche una naturale predisposizione) non tutti sono in grado di comunicare in maniera corretta attraverso le piattaforme social; in più, se non si ha particolare dimestichezza con questi mezzi (o con il mondo internet in generale), spesso si tende a sottovalutare alcuni comportamenti che potrebbero danneggiare l’immagine dell’azienda (e, di riflesso, la propria).
Prendiamo il caso ipotetico di uno studio dentistico: mettiamo che stia celebrando i primo anniversario dell’apertura e che tutti i dipendenti lo festeggino mangiando una torta. Che c’è di male? Niente. Mettiamo che un membro dello staff decida di immortalare il momento con una foto e di pubblicarla sulla pagina Facebook per condividere una data importante con i follower. Anche qui niente di male, no? Certo che no, in teoria.
In pratica, mettiamo che sfortunatamente i colleghi abbiano deciso di mangiare la torta alla postazione del dentista sbriciolando sugli strumenti e che questo si veda dalla foto pubblicata sul profilo aziendale: questa svista può convertire un’azione positiva (il voler condividere con gli utenti un anniversario importante e far passare il messaggio che dietro il brand ci sono persone che tengo a quello che fanno) in una potenziale figuraccia (a nessuno piace vedere che il proprio dentista sbriciola sugli strumenti che poi usa per fare la pulizia dei denti…).
Ecco il tipico caso di un’idea nata con buone intenzioni che però passa ad essere una pessima pubblicità per il brand, ma lasciatemi che vi domandi: cambierebbe qualcosa se la foto venisse pubblicata non sull’account aziendale dello studio dentistico ma sul profilo privato di uno dei dipendenti?
Beh, in tutta onestà, se uno tra i miei amici di Facebook postasse una foto del genere e dal suo profilo riuscissi a risalire allo studio dentistico in cui lavora, vi posso assicurare che ci starei parecchio alla larga…
Questa è una di quelle azioni che, seppur apparentemente innocue, possono fare del male alla percezione che il pubblico ha dell’azienda nella quale lavoriamo e che, nella peggiore delle ipotesi, potrebbero mettere a repentaglio anche il nostro posto di lavoro.
Non per niente infatti esiste l’espressione “dooced” che viene a significare qualcosa come “venire licenziati a causa di qualcosa che abbiamo pubblicato su internet”: blog, sito, profili social e non solo come azienda, ma anche come privato (se non ci credete, ecco 10 esempi di persone che hanno perso il lavoro per un tweet “sbagliato”).
(A questo proposito, una piccola digressione: per la stessa ragione bisogna stare attenti a cosa si pubblica sui propri profili privati perché i contenuti che rendiamo pubblici oggi un domani potrebbero darci problemi nella ricerca di un lavoro.
E’ infatti emerso che i recruiters hanno dei ripensamenti riguardo a un candidato se questo sui suoi profili personali fa riferimento all’uso di droghe, armi, alcool, o – seppur non così grave – se fa errori grammaticali.)
Tornando a noi, è proprio per evitare questo tipo di gaffe (o social fail) che è importante redigere una social media policy con linee guida che i dipendenti, i clienti ed i collaboratori possano seguire. E’ anche vero che una SMP, per quanto completa e ben redatta, se poi viene lasciata a sé stessa serve a poco: per questo è indispensabile che venga portata avanti un’azione di monitoraggio sulla pubblicazione dei contenuti e che i dipendenti e i collaboratori vengano formati proattivamente.
Ecco, ora che vi siete innamorati dell’idea di avere una SMP arriva la fatidica domanda: come crearne una? Da dove partire? Quali sono i punti fondamentali che devono essere trattati?
Gli argomenti da trattare in una SMP possono differire a seconda della realtà per la quale viene redatta e dai destinatari a cui si rivolge; per quanto riguarda i dipendenti dell’azienda, i collaboratori e il team di specialisti che si occupa della presenza sulle piattaforme social potremmo dire – in linea di massima – sono questi:
- linee guida sulla tipologia di contenuti da pubblicare
- comportamento da adottare nel caso di informazioni confidenziali
- comportamento da adottare quando si pubblica un post: identificarsi dicendo l’azienda per la quale si lavora e, nel caso di dichiarazioni personali, specificare che non si sta parlando in nome dell’azienda per la quale si lavora
- comportamento da adottare sui propri profili privati e personali
- diritti d’autore
- stabilire limiti riguardo a ciò che si può e non si può (deve) pubblicare
- usare il buon senso e le buone maniere
- fare riferimento al codice etico interno
- “don’t feed the trolls”
- ricordare che quando una cosa viene pubblicata in rete, poi rischia di rimanerci per sempre ed è – più o meno facilmente – riconducibile a chi l’ha scritta
Se c’è qualcosa che ci può aiutare a redigere una buona SMP è dare un’occhiata ad alcuni esempi reali particolarmente ben riusciti e prendere spunto: per fortuna online è possibile trovarne molti, anche di aziende importanti come Adidas o HP che hanno deciso di rendere pubbliche le proprie Social Media Policy (in cui vediamo come sono stati trattati alcuni dei punti che abbiamo elencato poco fa).
Oltre agli esempi reali, in rete troviamo un mare di guide che possono aiutarci a creare la nostra SMP: se ne leggete qualcuna, vedrete che in tutte viene sottolineata l’importanza di non redigere un documento che in realtà è solo una serie di divieti; una social media policy efficace dev’essere piuttosto un invito a riflettere su quello che facciamo online, a usare il buonsenso, a fare in modo che le pagine social di un’azienda siano un contesto in cui gli utenti desiderano essere attivi e condividere informazioni, esperienze, feedback.
Un altro requisito essenziale per una SMP è il poter essere comprensibile a tutti (sappiamo che i tecnicismi, legalismi e paroloni ci fanno sembrare importanti, ma evitiamoli) e, infine, i destinatari per i quali viene redatta devono essere invogliati a leggerla.
Se vi dessero un dossier di 50 pagine zeppe di parole incomprensibili, voi lo leggereste? Probabilmente no, mettereste una spunta senza nemmeno darci un’occhiata come succede con le informative sulla privacy.
Per questo motivo se avete il dono della sintesi, è consigliabile applicarlo a questa situazione: ci sono però determinate circostanze in cui sorge la necessità d redigere una SMP particolarmente dettagliata che finirà per essere inevitabilmente lunga.
In questi casi, è sempre bene crearne una versione tl;dr (too long; didn’t read – molto apprezzata nel caso di SMP per i clienti che si devono interfacciare con la pagina Facebook di un’azienda) per tutti coloro che vanno di fretta e che quindi hanno bisogno di dare uno sguardo solo ai punti principali.
Cosa abbiamo imparato quindi da questo articolo? Ripetiamo tutti assieme: quando si parla di comunicazione sui social network non si può (e non si deve) andare allo sbaraglio! Bisogna preparare una strategia efficace e affidarsi a persone che, in questo settore, siano competenti su più fronti.
Ricordiamoci infatti che i social network – per la loro immediatezza e la loro capacità di avvicinare il brand agli utenti – giocano un ruolo fondamentale nella (buona o cattiva) gestione delle crisi: una mossa sfortunata o più semplicemente uno sbaglio può capitare anche ai migliori, il tutto sta nell’essere capaci di uscirne senza che l’immagine del brand venga danneggiata, anzi, magari incrementando addirittura la percezione del marchio.
Infatti, se gestita nel modo giusto, una crisi può rivelarsi una grande opportunità: detta così questa frase suona come un paradosso, ma facciamo qualche esempio.
Prendiamo il caso di Kitchen Aid, il produttore di elettrodomestici da cucina. Nell’ottobre del 2012 un membro dello staff che twittava per la divisione statunitense, ha cinguettato – attraverso il profilo aziendale – una battuta infelice sulla deceduta nonna del presidente Obama (abbiamo davanti il classico caso in cui un post privato finisce per errore sull’account aziendale).
In questo caso per uscire dall’inghippo ci mise la faccia la manager di Kitchen Aid in persona che non negò l’accaduto arrampicandosi sui vetri o inventato scuse assurde per giustificarlo (come l’inflazionatissimo “il nostro account è stato hackerato!” oppure il più italiano “è stato fatto a mia insaputa” ;)). Si limitò a dire la verità, spiegando che il tweet doveva essere pubblicato sul profilo privato di una membro dello staff (che verosimilmente sarà stato licenziato all’istante) e chiedendo scusa al presidente Obama, alla su famiglia e a tutti i consumatori dissociandosi (come persona e come brand) da quanto era stato – seppur erronamente – twittato attraverso l’account di Kitchen Aid.
Un altro caso di successo è quello che ha visto come protagonista la catena di grandi magazzini americana JC Penney che è riuscita a gestire egregiamente una situazione potenzialmente pericolosa venutasi a creare dopo che l’immagine di una loro teiera sospettosamente simile a Adolf Hitler era diventata virale in rete.
Situazioni come queste sono letteralmente una miccia: se non viene smorzata può causare un incendio capace di ardere per giorni e giorni fino a lasciare dietro di sé un paesaggio così devastato che saranno necessari sforzi enormi (e tanto tanto tempo) prima che qualcosa di buono riesca a ricrescere. Capite l’importanza di non alimentare il fuoco?
JC Penney ci è riuscita, rispondendo a chiunque sollevasse la questione su Twitter con un tono leggero e divertente, e non lasciando alcuna reazione senza risposta.
Certo, in questi anni di crisi ce ne sono state tante ma non tutti sono stati altrettanto bravi a venire fuori illesi: il primo esempio che mi viene in mente è quello del brand italiano Patrizia Pepe, la cui pagina di Facebook è stata il palcoscenico di una discussione sull’aspetto fisico delle modelle usate come immagine del brand (troppo magre secondo il parere di alcuni utenti), in cui chi si occupava della comunicazione social del marchio non si è rivelato un campione di diplomazia…
Da Nestlé a Burger King (a cui abbiamo già accennato prima), di social media fail ne abbiamo visti parecchi…
In questo articolo abbiamo preso come esempio il caso ipotetico di una figuraccia che vedeva come protagonisti uno studio dentistico, una foto e una torta… Se in quel caso qualsiasi riferimento a cose o persone era puramente casuale, guardate un po’ cosa ha pubblicato davvero questo studio dentistico sulla sua pagina Facebook:
Siccome non volevamo infierire oltre (il post è già abbastanza di per sé) abbiamo blurrato il nome dell’azienda e tutti gli altri dati sensibili.
Ora, che cosa abbiamo davanti? Il titolare che vuole sfogarsi su Facebook ma sbaglia account e invece di postare sul suo profilo privato lo fa su quello aziendale? O il titolare che sceglie deliberatamente di pubblicare un messaggio del genere sul profilo del suo studio dentistico, in modo tale che tutti i suoi clienti lo leggano, perché pensa che sia la cosa giusta da fare?
Difficile a dirsi: sinceramente ciò che più mi ha lasciato perplessa sono quei 10 like e la condivisione (perché rappresentano persone a cui sembra giusto e anzi – condivisibile – che su un profilo aziendale venga pubblicato un messaggio del genere). A quel commento “Che professionalità”, poi se ne sono aggiunti altri, tutti dello stesso genere, di utenti che hanno mostrato il loro stupore e il loro disaccordo per quello sfogo davvero fuori tono e fuori luogo: e attenzione, parliamo di utenti, persone, potenziali clienti, non di social media specialists! In questi casi non c’è bisogno di essere un esperto del settore, basta usare il buon senso per capire che così non va.
Qualche ora più tardi il post è stato rimosso, senza nessuna giustificazione e senza che nessuno se ne prendesse la responsabilità. Di chiedere scusa agli utenti, manco a parlarne.
Non sarà più visibile sulla bacheca della loro pagina Facebook, ma secondo voi si cancellerà facilmente dalla memoria dei clienti che l’hanno letto e per i quali la percezione del brand è colata a picco?
No, nemmeno secondo me.