Il content marketing funziona?
Per poter provare a rispondere a questa domanda è necessario chiedersi quali sono gli obiettivi per cui si investe in attività di questo tipo: averli chiari ci aiuta a scegliere tra le tante opzioni possibili, adottando una strategia che ci possa avvicinare ai risultati desiderati.
Ragionando sul tema abbiamo individuato quattro possibili macro-obiettivi, tipicamente associati al content marketing:
- aumentare la brand equity (in particolare, brand awareness)
- ottenere clienti potenziali (lead generation)
- convertire dei clienti potenziali in clienti effettivi (chiudere le vendite)
- migliorare la relazione con i clienti
Come capire se siamo riusciti a raggiungere gli obiettivi di content marketing che ci siamo preposti?
Per farlo, nel content marketing così come in altre iniziative, si possono utilizzare i KPI, ovvero i “Key Performance Indicators” (in italiano “indicatori di prestazione chiave”).
Tra questi ne esistono alcuni più generici (che possiamo chiamare “macro KPI”) ed altri più specifici.
Per quanto riguarda il content marketing, abbiamo individuato i seguenti:
- reach
- sentiment
- memorabilità
- ricontattabilità
- scambio economico (o di valore)
- fedeltà
Qual è il denominatore comune di questi macro KPI?
Riguardano tutti la relazione tra l’azienda (o meglio, uno dei suoi possibili brand) e i suoi interlocutori di riferimento:
- il reach crea le condizioni affinché gli utenti entrino in contatto con il brand e lo conoscano
- il sentiment riguarda la percezione del marchio da parte degli utenti (ovviamente l’obiettivo è che la percezione sia il più possibile positiva)
- la memorabilità è importante perché riguarda la capacità del pubblico di ricordarsi del brand quando pensa alla categoria di prodotti o servizi che offre
- la ricontattabilità riguarda la possibilità di contattare in tempi utili il maggior numero di persone con il marchio è venuto in contatto e poterlo fare a costi economici
- scambio economico: è il “do ut des” dell’acquisto e anche se tipicamente si tratta di soldi in cambio di un prodotto o un servizio non è per forza sempre così (ad esempio Facebook aggrega i nostri dati e mette a disposizione di chi vuol fare pubblicità servizi di pubblicità mirata: si può dire che tra gli utenti di Facebook e l’azienda avviene uno scambio di valore)
- la fedeltà è la scelta di un cliente di rimanere fedele a un determinato brand; può essere legata a un acquisto (sono fedele a quel brand perché mi piacciono i suoi prodotti che compro in maniera ricorrente) oppure legata a una sorta di idealizzazione del brand (mi piace la Ferrari anche se non me ne potrò mai comprare una e la preferisco rispetto ad altri brand di macchine di lusso anche se non ho elementi oggettivi per fare un paragone e preferire la Ferrari).
Non tutti i macro KPI che abbiamo visto valgono per tutti gli obiettivi o comunque non valgono in egual modo poiché – a seconda di ciò che vogliamo raggiungere – alcuni KPI sono più rilevanti.
A grandi linee, volendo costruire una matrice, possiamo ipotizzare che gli obiettivi di content marketing che abbiamo menzionato possono essere valutati attraverso i seguenti KPI:
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Abbiamo visto che i macro KPI sono indicatori “generici”: questi possono esistere solo se prima mettiamo insieme diversi KPI più piccoli e sintetici che vengono combinati fra loro seguendo determinate logiche.
Ricapitolando:
- in una strategia di marketing possiamo darci diversi obiettivi
- grazie ai KPI, alcuni più generici e altri più specifici, siamo in grado di misurare indicativamente se le iniziative che abbiamo messo in atto ci stanno permettendo o ci hanno permesso di avvicinarci o meno agli obiettivi che ci siamo posti
Tornando al content marketing, dopo aver definito i nostri obiettivi e impostato i KPI per misurare se li stiamo raggiungendo o meno, dobbiamo tradurre la teoria in azione e quindi stabilire:
- che tipologia di contenuto è meglio produrre per raggiungere quell’obiettivo
- la sostanza del contenuto (l’argomento trattato e la qualità da tenere)
- i canali di distribuzione
La domanda che dobbiamo porci, quindi, è:
un certo tipo di contenuto, realizzato con una certa sostanza e distribuito attraverso determinati canali, ci sta aiutando a raggiungere un certo obiettivo?
Proviamo ad andare più a fondo in ogni singolo macro obiettivo!
1. Aumentare la brand equity ( in particolare, brand awareness )
La brand equity è il valore commerciale che deriva dalla percezione di un brand da parte del pubblico (quello che ci spinge a scegliere di comprare il prodotto A anche se il prodotto B – di un altro brand – magari costa meno o è oggettivamente migliore per noi).
La brand awareness è parte della brand equity e consiste nella capacità del pubblico di riconoscere quel determinato brand e collegarlo ai prodotti o servizi che offre.
Perché la brand awareness è importante?
La capacità degli utenti di ricordare il brand e posizionarlo gioca un ruolo chiave nelle decisioni d’acquisto: riduce lo sforzo cognitivo legato al processo d’acquisto così come le incertezze del compratore (“non l’ho mai sentito nominare, mi potrò fidare?”) e – nel caso di buon posizionamento – spinge l’acquirente a preferire quel brand rispetto ad altri, spesso anche a fronte di una minor convenienza economica.
Nella tabella precedente abbiamo visto che i macro KPI a cui dobbiamo puntare per aumentare la brand awareness sono reach e memorabilità: che tipo di contenuto dobbiamo produrre per raggiungere questo obiettivo?
Video e immagini hanno una memorabilità più alta e si prestano ad essere diffusi in più modalità: tramite pubblicità, sui social, etc.
Ora, non basta “creare il contenuto” per aumentare la brand awareness, ed è qui che diventa evidente il concetto di “sostanza” di cui parlavamo prima: affinché un certo contenuto funzioni è necessario che abbia tutte le caratteristiche giuste per il pubblico a cui è rivolto.
Prendiamo l’ormai famosissimo video di Dollar Shave Club, azienda statunitense che consegna prodotti per la cura della barba (e della persona) a domicilio: la compagnia (fondata nel 2011) nel 2012 lanciò un video di presentazione dell’azienda in cui il CEO Micheal Dubin parlava dell’azienda e del perché acquistare i loro prodotti in modo molto sarcastico e irriverente.
Il video diventò virale e nelle 48 ore successive alla sua pubblicazione sul canale YouTube dell’azienda, Dollar Shave Club ricevette 12.000 ordini; al momento in cui scriviamo (luglio 2020), il video ha accumulato quasi 27.000.000 di visualizzazioni!
I canali per distribuire i contenuti prodotti per ottenere una maggiore brand awareness di solito sono quelli “esterni” all’azienda e sono tipicamente a pagamento (“paid media”), anche se con le dovute attenzioni si può ottenere visibilità (“earned media”) con investimenti contenuti.
2. Ottenere clienti potenziali ( lead generation )
L’obiettivo della lead generation è ottenere clienti potenziali, avvicinando delle persone interessate ai nostri prodotti o servizi e – tipicamente – mettendoci in condizioni di ricontattarle.
Per arrivare ad ottenerne di più e di maggior qualità abbiamo visto che è importante puntare sul sentiment e sulla ricontattabilità.
Dobbiamo infatti pensare che stiamo chiedendo agli utenti i loro dati: per sentirsi a loro agio nel darceli devono avere un sentiment positivo nei nostri confronti e questo si ottiene, ad esempio, attraverso la produzione di contenuti di valore che possano essere utili per chi ne fruisce.
Offrire un contenuto di valore in cambio della possibilità di ricontattare in un secondo momento le persone, se fatto nelle giuste modalità, permette di abbattere in maniera significativa i costi di relazione, consentendoci di restare in contatto con la persona in maniera economica.
Che tipologia di contenuti è utile produrre per ottenere clienti potenziali?
L’elenco è davvero lungo: e-book, white paper, schede tecniche dettagliate, testimonianze, contenuti esclusivi…
Rispetto ai contenuti utili per generare brand awareness si tratta di contenuti che possono permettersi di andare più in profondità, aiutando le persone a capire meglio questo o quell’aspetto legato al nostro prodotto e/o servizio, all’offerta che stiamo facendo, etc.
Per poter accedere a questi contenuti tipicamente viene chiesto agli utenti di lasciare i propri dati e autorizzare il brand a contattarli: spesso lo si fa nel contesto di landing page ideate appositamente allo scopo e contestualizzate in un “funnel” (imbuto).
L’equilibrio tra quello che si chiede e quello che si dà in cambio è fondamentale: se ad esempio il nostro obiettivo è inviare una newsletter, in teoria ci basta chiedere l’indirizzo di posta elettronica e l’autorizzazione all’invio. Ogni dato in più che chiediamo è un ostacolo all’iscrizione e riduce le nostre chance di contatto.
Offrendo valore (ad esempio, appunto, una newsletter utile e informativa in cambio del solo indirizzo di posta elettronica) miglioriamo il sentiment della persona nei nostri riguardi e potremo avvicinarci ancora di più, magari offrendo un e-book gratuito in cambio di qualche dato in più o della possibilità di far seguire una proposta commerciale.
Per analizzare il sentiment, tra i tanti dati possibili, possiamo monitorare il tasso di disiscrizione dalla nostra newsletter dopo ogni invio: un aumento significativo può corrispondere ad una mail particolarmente sgradita.
Per analizzare invece la ricontattabilità, sempre restando nell’esempio della newsletter, il numero di iscritti così come il tasso di apertura sono due indicatori particolarmente importanti.
Un cliente potenziale che si è avvicinato con un sentiment positivo e che ha ricevuto del valore è statisticamente più propenso a convertirsi in cliente a tutti gli effetti.
3. Convertire dei clienti potenziali in clienti effettivi ( chiudere le vendite )
Questo è un passaggio fondamentale durante il quale i clienti interessati diventano clienti effettivi, portando a termine uno scambio economico.
In alcuni casi questo passaggio è più facile: se per esempio un servizio ha una versione base gratis, è più facile portare gli utenti che già la conoscono, la usano e la apprezzano a passare a una versione con maggiori funzionalità a pagamento; è invece più difficile che un utente che non ha mai messo alla prova un servizio sottoscriva subito un abbonamento a pagamento (soprattutto se il costo è elevato).
Per poter chiudere una vendita abbiamo bisogno di contenuto che dia davvero valore aggiunto agli utenti, come ad esempio:
- casi studio
- video di dimostrazione per prodotti / servizi
- webinar
- testimonianze
- recensioni di altri clienti
- domande & risposte
Si tratta di contenuti che in molti casi fanno da giustificativo ad una decisione d’acquisto già presa, supportando un processo di razionalizzazione.
In altri casi invece aiutano il potenziale acquirente a scoprire caratteristiche e modalità di impiego del prodotto / servizio che in precedenza non conosceva o a cui non aveva dato sufficiente peso.
I macro KPI che è utile tenere in considerazione per produrre e distribuire contenuti utili per chiudere una vendita sono:
- sentiment (che ovviamente deve essere positivo)
- ricontattabilità
- valore dello scambio economico
Spesso e volentieri il luogo chiave dove avviene la conversione è il sito dedicato al marchio: il potenziale acquirente è alla ricerca di contenuti autorevoli e di cui può fidarsi.
Non vanno però trascurati importanti “snodi” in rete come ad esempio siti o canali di recensioni e (in molti casi) forum di discussione, dove persone appassionate si confrontano su questo o quel prodotto / servizio: una singola recensione negativa particolarmente articolata in uno snodo ad alta visibilità (ad esempio molto ben posizionata in corrispondenza delle SERP legate al nome del prodotto) può impattare in maniera significativa le vendite.
Se il sentiment è un fattore chiave, anche la possibilità di ricontattare il potenziale cliente a costi contenuti e con la giusta frequenza è altrettanto importante: i costi di acquisizione di un cliente giocano in molti settori un ruolo molto importante nel prezzo finale del prodotto e, se particolarmente elevati, lasciano spazio ai concorrenti in grado di convertire clienti a costi inferiori.
Ad esempio, un’azienda che investe principalmente in pubblicità online ma non si impegna sul fronte SEO, nel lungo periodo si ritrova a pagare molto di più del concorrente che ha investito su questo fronte e quindi, per vendere con i medesimi margini a parità di altri fattori, dovrà ridurre la convenienza per l’acquirente.
Per misurare il contributo del content marketing al raggiungimento di questo obiettivo spesso si ricorre al mero tasso di conversione (e.g. numero di visite su di un sito / numero di acquisti, nel caso di vendita diretta), ma in realtà si può andare più a fondo: si può ragionare sul tempo medio dalla prima visita all’acquisto, così come sull’acquisto di prodotti o servizi correlati (spesso ad alto valore aggiunto, come le garanzie aggiuntive): ogni settore e modalità di vendita ha le sue regole ed i suoi KPI di riferimento, in cui in questo articolo non ci addentriamo, accontentandoci di sottolineare il contributo – spesso determinante – che il content marketing può avere in questa fase determinante della relazione tra il brand ed il suo pubblico.
4. Migliorare la relazione con i clienti
Abbiamo spesso parlato di quella fase del Customer Journey che prende il nome di Delight: questa fase viene spesso considerata successiva all’acquisto o comunque alla transazione economica, come nel caso della prima formulazione del processo di inbound marketing (il classico imbuto, in inglese “funnel”), poi trasformato nell’esperienza a tutto tondo in ogni punto di contatto, secondo il modello del volano, in inglese “flywheel”.
In questo caso però ci concentriamo nello specifico su tutto ciò che avviene dopo il momento dell’acquisto e sul contributo che il content marketing può dare alla qualità della relazione.
Far sentire i clienti speciali e – soprattutto – aiutarli a raggiungere i loro obiettivi, può fare davvero la differenza nei risultati d’insieme:
quando Adobe è passata ad un modello di abbonamento per i suoi software ha notato che molti clienti, dopo l’acquisto iniziale, non erano realmente soddisfatti perché ritenevano di pagare molto per quello che ottenevano.
Per migliorare questa situazione Adobe ha iniziato ad inviare, subito dopo l’acquisto, molte comunicazioni che indirizzavano a guide e tutorial, incentivando gli acquirenti a conoscere ed utilizzare meglio il prodotto acquistato.
Grazie a questa attenzione, il livello di soddisfazione dei clienti è aumentato significativamente, dandoci testimonianza dell’importanza della fase di onboarding ma soprattutto dell’educazione dei clienti ad un impiego del prodotto / servizio che ne valorizzi il potenziale.
Se i contenuti educativi (video, tutorial, simulazioni VR, quiz e molto altro) sono molto utili in certi ambiti, in altri fanno la differenza contenuti che contribuiscono a creare un senso di appartenenza ad una community tra i vari acquirenti, rafforzando la percezione di aver fatto un buon acquisto.
Anche su questo fronte, poter mantenere la relazione a costi contenuti con le persone è fondamentale, quindi la ricontattabilità resta prioritaria, ma a questa si aggiunge la fedeltà, che in alcuni ambiti si traduce in una scelta continuativa del prodotto o servizio in abbonamento, in altri casi nel continuare a parlare bene del prodotto o servizio anche dopo che il motivo per cui si è stabilita una relazione è venuto meno.
Pensiamo ad un prodotto per l’infanzia acquistato quando si aveva un bambino piccolo: a distanza di anni non si ha più bisogno di quel prodotto, ma se il sentiment è positivo e la qualità dell’esperienza elevata, non si esiterà a consigliarlo a parenti, amici ed estranei (eventualmente tramite recensioni online).
La fedeltà del cliente rientra in quell’insieme che abbiamo visto all’inizio legato alla brand equity (di cui abbiamo esaminato in particolare l’aspetto della brand awareness): un brand capace di fidelizzare i suoi clienti sta costruendo valore che rende più facile la realizzazione della sua mission.
Proprio la domanda “su una scala da 1 a 10, quanto consiglieresti questo prodotto/servizio ad un amico/a?” ci consente di accedere ad un importante indicatore della qualità della relazione, il “Net Promoter Score” (NPS).
Si tratta di un indicatore che misura la proporzione di “promotori” di un prodotto, di una marca o di un servizio, rispetto ai suoi “detrattori” classificando i voti in questo modo:
- chi dà un voto dallo 0 al 6 è un detrattore: si tratta di clienti insoddisfatti
- chi dà un 7 o un 8 è un passivo: sono clienti soddisfatti ma indifferenti, non consigliano né sconsigliano l’azienda
- chi dà un 9 o un 10 è un promotore: cliente soddisfatto che tornerà a comprare e consiglierà il prodotto o il servizio ad altri
(piccolo inciso: questa scala è “tarata” sul pubblico USA, rispetto al quale quello italiano è mediamente più “contenuto” nelle valutazioni. Bisogna tenerne conto prima di leggere come insuccesso un risultato che tale non è).
L’NPS, pur molto utile, va comunque accompagnato da altri KPI: il fatto ad esempio che un cliente faccia ordini abitualmente dal nostro negozio, pur potendolo fare altrove, è sicuramente un indicatore di una relazione quantomeno neutra, tipicamente positiva.
Come questo ce ne sono molti altri, che ancora una volta dipendono dalla specificità del settore, dalle modalità di vendita ed altri fattori rilevanti.
In conclusione
In questo post abbiamo visto alcuni obiettivi a cui puntare attraverso il content marketing ed alcuni dei possibili KPI (generici e specifici) con cui misurare il successo delle nostre iniziative.
I KPI, come tutti gli indicatori sintetici, sono risorse da prendere “con le pinze”, inquadrandoli nella giusta ottica: non sono linee guida da seguire ciecamente ma sono un valido aiuto per costruire il nostro percorso e farci capire se siamo sulla strada giusta.
Produrre tanti contenuti, anche di qualità, senza però ragionare sugli obiettivi che si vogliono raggiungere e come ottimizzare questo investimento di risorse ed energie per raggiungerli, porta a delle disottimizzazioni costose per i marchi, che rischiano di vedere eventuali concorrenti ottenere risultati migliori con minor sforzo.
Bisogna inoltre stare attenti alla “miopia da KPI”, ovvero a non riuscire a vedere oltre a uno specifico indicatore: è un problema che si presenta spesso quando a un KPI sono vincolati particolari vantaggi (ritorni economici, premi aziendali, etc.).
Forzare ad esempio le iscrizioni ad una newsletter, facendo abbonare anche persone non realmente interessate, è vero che soddisfa un eventuale KPI sul numero di iscritti alla newsletter, ma un possibile aumento delle segnalazioni per SPAM può ridurre il tasso di deliverability (consegna) delle email che mandiamo, riducendo le nostre chance di contattare gli iscritti interessati.
I KPI vanno sempre e comunque letti e riletti in una relazione d’insieme, olistica.
Proprio per questo motivo molte grandi aziende hanno fatto il salto dai KPI agli OKR: in alcuni casi ci aiutano di più i KPI, in altri gli OKR. Ma lo scopriremo nel prossimo post 😉