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Il tuo prodotto è virale? Il ruolo del growth hacker in azienda

Alberto Giacobone

Tempo di lettura: 15′

Un'idea vincente si fa conoscere molto rapidamente, per "contagio" da una cerchia di conoscenze all'altra in maniera virale
Un’idea vincente si fa conoscere molto rapidamente, per “contagio” da una cerchia di conoscenze all’altra in maniera virale

Vi ricordate qualche anno fa le campagne pubblicitarie delle auto incentrate su questo o quel dettaglio, come ad esempio il vivavoce Bluetooth di serie?

Mi hanno sempre affascinato: si tratta di un “accessorio” che in produzione costava pochi euro, che quando non era di serie veniva venduto caro (ed ancora oggi è così) e che “aftermarket” si poteva tranquillamente acquistare per cifre considerevolmente inferiori. Al pari, è meglio non parlare dei navigatori satellitari, stesso concetto ma con cifre in gioco ben più importanti.

Erano altri anni: le persone non si erano ancora trasferite in massa sui social network, internet non era ancora un punto di passaggio “quasi obbligato” nel processo d’acquisto ed i pubblicitari erano più vicini alla figura dei “Mad Men” che quella degli scienziati analisti di Big Data.

Quello che però più conta sottolineare è come – allora come spesso ancora oggi – addetti al marketing e pubblicitari venivano coinvolti sostanzialmente a “giochi fatti”, chiamati a far di necessità virtù, valorizzando con questo o quell’escamotage quanto prodotto da altri e già bello che definito.

Questa “separazione delle funzioni” trovava il culmine della sua distonia nelle confezioni dei prodotti alimentari, come ad esempio le merendine, rapportate al contenuto: avete presente?

Soffici brioche ricche di pezzettoni di cioccolato sulla carta, che all’apertura si svelano per la loro reale natura, decisamente meno “attraente”: nell’epoca degli smartphone con fotocamera, di Instagram e di Twitter, della possibilità per il singolo acquirente deluso di acquistare pubblicità e visibilità significativa a costi irrisori, pensare di farla franca è sempre più difficile e perlomeno nelle sue accezioni più estreme, è un fenomeno che sta rientrando (diverso il discorso per il “packaging creativo”, che all’aumento del volume della confezione fa corrispondere una riduzione del prodotto effettivamente contenuto, ma è un argomento che meriterebbe un post dedicato e rischiamo di andare fuori tema!).

Spuntate – per fortuna – le armi di certa pubblicità, la domanda rimane però la stessa: come vendere di più, ottenere più visibilità, crescere e fare fatturato, senza rischiare di spendere di più di quello che si ottiene?

Trovare in azienda spazio per uno o più “growth hacker” potrebbe offrire alcune risposte interessanti e portare dei risultati concreti o in alcuni casi, fare letteralmente la differenza tra il successo e l’insuccesso dell’impresa.

Chi è il “growth hacker”? “Smanettone della crescita” è l’espressione più vicina in lingua italiana che riesco ad individuare, anche se ben lontana dall’esprimere adeguatamente di primo acchito le qualità ed il ruolo di chi fa questo mestiere (idee e suggerimenti per trovarne di migliori sono ben accetti nei commenti 😉 ).

Per aiutarci, distinguiamo le qualità dal ruolo: il “growth hacker” è una persona attenta ai particolari, meticolosa, capace di individuare correlazioni non ovvie o ancora, analizzare grandi moli di dati per evidenziare / anticipare tendenze. I “growth hacker” di cui si scrive (soprattutto al di là dell’oceano) sono impiegati soprattutto in ambito web, specialmente nelle startup, hanno buone basi di programmazione e le sfruttano per mettere in atto escamotage utili per ottenere risultati significativi con budget limitati. Sono abituati al metodo scientifico ed alla reiterazione: partono da uno scenario, mettono in atto un cambiamento, controllano i risultati ed aggiustano il tiro, iterazione dopo iterazione.

Il growth hacker è un maestro del passaparola (in inglese, “word of mouth”) ed in questo le sue competenze non sono difformi da quelle di molti esperti di marketing.

Dove sta quindi la “differenza eclatante” del growth hacker e del contributo che può portare in azienda?

Il vero salto culturale per l’impresa l’abbiamo accennato prima, quando abbiamo parlato di “trovare spazio in azienda”: è il ruolo che viene attribuito al growth hacker ed è il suo coinvolgimento sin nelle fasi iniziali di realizzazione del prodotto che fa la differenza rispetto a figure equivalenti del passato.

Le aziende che scelgono di avvalersi di un growth hacker, per consentirgli di svolgere al meglio il suo compito, devono permettergli di contribuire alla realizzazione del prodotto, rendendolo sin da subito, nella sua essenza, più facile da condividere, più facile da far desiderare, più facile da vendere.

Non si tratta più di “vestire con delle confezioni particolarmente attraenti un prodotto così così”, ma di consentire ad un esperto di rendere il prodotto attraente di per sè, di permettergli di renderlo un’esperienza d’acquisto che le persone hanno il piacere di fare. I growth hacker del passato si sono inventati le barzellette del Cucciolone Algida, o ancora, le frasi dei Baci Perugina, che hanno sì i loro estimatori ed i loro detrattori, ma intanto ce li ricordiamo più o meno tutti quanti.

I growth hacker di oggi invece si assicurano che un software/servizio come Dropbox sia disponibile per il più vasto numero di piattaforme possibili o ancora, offrono spazio gratis in aggiunta (il “cuore dell’offerta di Dropbox”, e non un gadget inutile o solo relativamente utile) a chi fa scoprire il prodotto (utile di suo) ai propri amici, trasformandoli in “ambasciatori di una buona esperienza”.

Molti dei modelli di business della new economy passano attraverso le forche caudine della crescita: per funzionare, devono avere una base utenti molto diffusa e per attirare nuovi utenti, devono già averne tanti. Pensiamo ad un sito di annunci: chi va a mettere un annuncio su di un sito dove nessuno va a guardarli?

Bisogna quindi crescere e farlo in fretta, per approfittare di spazi di mercato disponibili per finestre temporali limitate. Ma all’inizio spesso si hanno pochi soldi da investire e quindi crescere è difficile, ed il cane, come si suol dire, si morde la coda.

Proprio per questo, più “il prodotto si vende da solo”, più le chance di successo sono alte, anche con budget limitati. Se chi sceglie quel prodotto ha il piacere, la facile occasione ed un giusto vantaggio nel farlo scoprire ad altri potenziali clienti, il growth hacker ha già fatto bene buona parte del suo mestiere e non gli rimane che accelerarne la diffusione.

Attenzione però: quello della condivisione è un mix “critico” a cui prestare importanti attenzioni.

Se ad esempio il vantaggio offerto non è “giusto” ma troppo alto, la condivisione potrebbe non essere sincera e portare chi lo vuole ottenere ad essere troppo insistente non tanto con altri potenziali clienti, ma con la sua cerchia di amici e conoscenti, che magari non è così “in target” per quel prodotto. Questo può portare ad un’esperienza insoddisfacente da parte di utenti che potrebbero esprimere il loro disappunto attraverso recensioni negative.

Al contrario, un vantaggio “inesistente”, potrebbe vanificare o seriamente compromettere gli sforzi del growth hacker.

Sull’aspetto del vantaggio, un inciso. Stanno nascendo molte piattaforme che cercano, più o meno esplicitamente, di far leva su persone capaci di influenzarne altre (c.d. influencers) per portarle a promuovere – a pagamento – questo o quell’altro prodotto (al di là del loro effettivo e sincero apprezzamento per il prodotto): spesso questi influencer si trasformano in testimonial poco credibili e nei casi peggiori, possono far più danno che bene.

L’occasione ed il momento della condivisione è altrettanto critico: il discrimine tra l’infastidire o addirittura “forzare” l’utente ed un naturale “esserci” quando l’utente potrebbe avere il desiderio di condividere a volte viene travalicato, a danno dell’esperienza. Avete presente i giochi che chiedono di twittare o postare su Facebook dei messaggi pre-confezionati, per ottenere bonus o avanzare più facilmente? Se per alcuni utenti questo tipo di richieste è un “non problema”, molti altri vivono male questo “accattonaggio della condivisione” e chi lo porta avanti come stratagemma corre i suoi rischi.

Come in tutte le professioni, i growth hacker hanno una gran varietà di “mezzi” ed una ancora più grande varietà di “mezzucci” a loro disposizione per ottenere dei risultati. La capacità di impiegare i primi al meglio e resistere alle tentazioni dei secondi (anche se a volte fanno parte della naturale crescita professionale), caratterizza i growth hacker più esperti, che come dei giocolieri devono far vendere più prodotti e servizi ed al contempo preservare il “feeling” degli stessi con chi ha già acquistato e con chi potrebbe acquistare.

Per riuscire in tutto questo – lo ricordiamo – è fondamentale che i growth hacker abbiamo ampio margine di manovra in azienda. Si tratta di un dettaglio davvero non trascurabile e molte aziende, con buona probabilità, non sono ancora del tutto pronte ad accettare questo cambiamento. E’ un rischio che corrono – speriamo – consapevolmente.

Per chi volesse approfondire, ecco una presentazione davvero ricca di spunti di Mattan Griffel (intercettata tramite un bel post di Alberto D’Ottavi), che con questo elemento condivisibile, promuove la visibilità del suo www.growhack.com

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