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Giugno: mese dell’orgoglio o del rainbow washing? I consigli per le aziende che vogliono sostenere davvero la comunità queer (non solo a giugno)

Stella Fumagalli

Tempo di lettura: 11′

Il Mese dell’Orgoglio Lesbico, Gay, Bisessuale, Transgender e Queer (LGBTQ) viene celebrato ogni anno nel mese di giugno in onore dei moti di Stonewall del 1969, un evento che rappresentò un punto di svolta per il movimento di liberazione gay negli Stati Uniti.

Fonte immagine: https://bit.ly/3xegLNt

Da allora durante il mese di giugno in varie parti del mondo si tengono commemorazioni per i membri della comunità che hanno perso la vita a causa di crimini d’odio o dell’HIV/AIDS e per riconoscere l’impatto che le persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender hanno avuto e continuano ad avere sulla storia a livello locale, nazionale e internazionale.

Per questo a giugno viene data maggiore visibilità alla comunità queer, anche dalle aziende e dai brand: loghi declinati nella versione arcobaleno e iniziative ad hoc sono all’ordine del giorno ma purtroppo – come succede anche per altre ricorrenze (ad esempio il 25 novembre, la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne) – il rischio è che le iniziative siano solo “di facciata” e non rispecchino veramente i valori dell’azienda in merito alle discriminazioni contro le persone omosessuali.

Per questo a giugno oltre che di mese dell’orgoglio arcobaleno si sente parlare anche di “rainbow washing”, ovvero l’atto di utilizzare o aggiungere colori e/o immagini arcobaleno a pubblicità, abbigliamento, accessori, punti di riferimento per indicare un sostegno progressivo all’uguaglianza LGBTQI+ (e guadagnare credibilità da parte dei consumatori) ma con uno sforzo minimo e senza azioni concrete.

In parole povere, si parla di rainbow washing quando un’azienda o un’organizzazione a scopo di lucro utilizza i colori dell’orgoglio arcobaleno per suggerire ai consumatori il proprio sostegno alla comunità LGBTQI+, senza dover compiere uno sforzo effettivo o produrre un risultato tangibile per le persone queer; e questo – come denuncia benissimo questo post di Diet Prada – succede specialmente a giugno.

La dinamica del rainbow washing è la stessa (come si evince anche dal nome) del green washing o del purple washing: nel primo caso le aziende portano avanti una pratica di marketing “verde” che mira a creare un’immagine illusoria di responsabilità ecologica mentre nel secondo la causa femminista (il cui colore simbolo è il viola) viene sfruttata a vantaggio del business, usandola con leggerezza con slogan che non trovano riscontro nell’agire dell’azienda.

Ma che senso ha fare rainbow washing? Perché un’azienda dovrebbe schierarsi con la comunità queer se non ha interesse nel portarne avanti la causa?

Il motivo è puramente economico: secondo dati del 2015, le persone adulte della comunità LGBTQI+ hanno un potere d’acquisto combinato di 3,7 trilioni di dollari; un articolo della BBC ha suggerito che “oltre il 90% delle persone gay boicotta attivamente le aziende anti-gay“.

Il crescente potere economico del cosiddetto “denaro rosa” (il potere d’acquisto della comunità LGBTQI+) ha attirato e continua ad attirare l’attenzione delle aziende che ci hanno messo poco a fare 2+2 e capire che apparire solidali con la comunità queer (in alcuni casi senza necessariamente esserlo davvero) può avere un grande ritorno economico.

Se, poi, anche gesti puramente simbolici di sostegno incoraggiano la fedeltà al marchio, il ritorno dei clienti e la pubblicità gratuita da parte dei consumatori LGBTQI+ è comprensibile che le aziende dedichino così tanto tempo alla comunità queer ogni giugno.

Esempi di rainbow washing: quando il sostegno è solo di facciata

Ci sono molti modi in cui un’azienda può fare rainbow washing, ad esempio quando – da una parte – si mostra solidale con la comunità queer attraverso slogan e immagini arcobaleno ma dall’altra:

  • fa donazioni a partiti politici / personalità politiche che portano avanti programmi contro le persone omosessuali
  • fa affari con Stati in cui l’omosessualità è ancora un reato
  • nel fare affari con Stati che condannano l’omosessualità non dichiara il suo schieramento con la comunità omosessuale
  • non crea un ambiente lavorativo inclusivo per tutte le persone che vi lavorano
  • discrimina le persone omosessuali sul piano personale e lavorativo (meno opportunità di carriera, stipendi più bassi, etc.)

Abbiamo citato l’esempio di aziende che fanno affari o che sono presenti anche in Paesi in cui l’omosessualità è ancora considerata un reato; in questo caso è giusto articolare meglio il discorso con una riflessione.

Ci possono essere casi di aziende che, sebbene presenti in Paesi che condannano l’omosessualità, si sforzano attivamente “dietro le quinte” per cambiare la situazione della comunità queer di quel Paese.

Come? Dando lavoro alle persone omosessuali a parità di diritti, opportunità e stipendio, cercando di creare un ambiente di inclusione e tolleranza che si trasformi in terreno fertile per un cambio culturale più grande, etc.

È sempre possibile? Purtroppo no. Ma è importante ricordarsi che ci sono dei casi in cui la presenza di un’azienda su un determinato territorio non significa che, proprio con la sua presenza, non stia comunque cercando di cambiare le cose.

Quindi, anche se magari adotta un logo con i colori dell’arcobaleno nelle pagine social di alcuni Paesi e non lo fa in altri, questa scelta potrebbe essere motivata dalla volontà di non precludersi la possibilità di continuare a fare la differenza senza entrare in conflitto frontale con le autorità di quel Paese.

Come riconoscere un’azienda che fa rainbow washing?

Non è sempre facile, anzi!

Può essere difficile distinguere tra un sostegno sincero e uno interessato, e il segreto sta nel vedere ciò che le aziende fanno in tutti gli altri mesi dell’anno e chiedersi:

  • prima di giugno l’azienda ha mai mostrato il suo sostegno alla comunità queer?
  • l’azienda sostiene la causa anche negli altri mesi dell’anno e con azioni concrete?
  • tra i valori dell’azienda ce ne sono alcuni che riflettono la volontà di combattere contro le discriminazioni sull’identità di genere e l’orientamento sessuale?

Se la risposta a queste domande è sì, con tutta probabilità siamo davanti a un’azienda che davvero sostiene la causa arcobaleno e che, a giugno, lo fa dando ancora maggiore visibilità alle sue iniziative.

Se la risposta alle domande precedenti è no e durante il mese di giugno l’azienda:

  • lancia iniziative ad hoc
  • usa il proprio personale LGBTQI+ per la creazione di contenuti legati a questo argomento
  • vende prodotti in versione arcobaleno
  • partecipa ai Pride organizzati nelle varie città con carri brandizzati

le probabilità di essere davanti a un caso di rainbow washing sono decisamente più alte.

Perché il rainbow washing è dannoso?

Dare visibilità a una causa non è comunque sempre utile? Nella “big picture” è davvero dannoso schierarsi con la comunità queer anche se poi non viene fatto niente di concreto se comunque serve per parlarne e aumentare l’attenzione verso quell’argomento?

È una domanda legittima che deve stimolare una riflessione: la mercificazione e l’abuso della bandiera del Pride (la bandiera arcobaleno che rappresenta la lunga storia di resistenza della comunità queer contro l’oppressione) ha avuto un effetto di “indebolimento” del Pride come evento di sensibilizzazione in sé.

Nella mente di alcune persone, purtroppo, il Pride è diventato più una questione di sponsorizzazioni e marketing invece di una ricorrenza fondamentale per amplificare le voci queer e sensibilizzare sulle questioni LGBTQI+.

Il rainbow washing è dannoso anche perché induce le persone alleate e coloro con buone intenzioni a pensare che stiano sostenendo la comunità LGBTQI+, mentre in realtà stanno arricchendo aziende che hanno un interesse minimo o nullo nel lottare contro le discriminazioni.

Sono un’azienda: come posso sostenere davvero la causa LGBTQI+?

Come abbiamo detto anche nel nostro post sullo storydoing, anche le piccole azioni fanno la differenza; certamente le grandi multinazionali hanno enormi risorse a disposizione e possono mettere in piedi iniziative epiche, ma non per questo le piccole imprese non devono sentirsi in diritto (e in dovere!) di partecipare alla conversazione con i mezzi di cui dispongono.

Sostenere la comunità queer non è solo fare grandi donazioni, si tratta di coltivare una cultura (aziendale e non) che faccia sentire tutte le persone benvenute e con diritto alle stesse opportunità.

Quindi, se siamo un’azienda che vuole sostenere la comunità queer, possiamo (tra le altre cose):

  • informarci sull’importanza della causa: perché è ancora necessario parlarne nel 2022 e perché è qualcosa che riguarda tutt*? (Noi ne parliamo nella parte finale di questo post)
  • creare all’interno della nostra azienda un ambiente che faccia sentire a proprio agio tutte le persone indipendentemente dal proprio orientamento sessuale e della propria identità di genere
  • assicurare parità di diritti, condizioni, opportunità, stipendi
  • dichiarare tra i valori aziendali il sostegno alla comunità queer (o, più in generale, dichiararsi contrari a qualsiasi tipo di discriminazione)
  • circondarsi di partner, collaboratori, fornitori e clienti con gli stessi valori
  • donare alle associazioni per la parità dei diritti delle persone LGBTQI+ del territorio
  • donare a iniziative per sensibilizzare le persone su tolleranza e rispetto
  • donare a sportelli di aiuto psicologico per tutte le persone queer che si trovano in situazioni di difficoltà legate al proprio orientamento sessuale

Cosa stiamo facendo noi per la comunità queer?

E noi di Axura, che proprio a giugno usciamo con un post sul rainbow washing, cosa stiamo facendo per la comunità LGBTQI+?

Un’altra domanda legittima (che, anzi, ci piacerebbe ci venisse posta più spesso) a cui rispondiamo più che volentieri:

  • rispettiamo qualsiasi orientamento sessuale e qualsiasi identità di genere nella relazione tra noi di Axura, con i clienti, i fornitori, i collaboratori, etc.
  • ci sforziamo di usare un linguaggio inclusivo, sia in azienda che fuori (ne avevamo scritto anche nel nostro blog)
  • nei nostri progetti cerchiamo di non utilizzare la divisione binaria maschio / femmina e di non dare per scontato che chi legge sia sempre una persona eterosessuale, caucasica o cisgender
  • cerchiamo di sensibilizzare anche i nostri clienti su queste tematiche nei progetti che sviluppiamo insieme
  • non collaboriamo con realtà di cui conosciamo atteggiamenti discriminatori
  • portiamo avanti Mestruazioni senza Tabù, un progetto totalmente autofinanziato (e senza scopo di lucro) di divulgazione su tematiche che riguardano l’educazione sessuale, il femminismo e anche l’omosessualità

Quali sono le associazioni a favore dei diritti delle persone queer di Monza e Brianza?

Come azione utile per sostenere la comunità queer abbiamo suggerito la donazione a cause / associazioni che si battono a favore delle persone omosessuali.

In questa pagina di Wikipedia sono elencate le realtà principali che operano nel nostro Paese (ce ne sono anche altre in questa pagina del comune di Torino).

Per quanto riguarda Monza Brianza, la provincia in cui si trova la nostra agenzia, segnaliamo BOA – Brianza Oltre l’Arcobaleno aps, la prima associazione LGBTIQAPK+ di Monza e della Brianza.

Perché l’inclusione ci riguarda tutt*?

Siamo nel 2022 e di strada per i diritti delle persone queer ne è stata fatta rispetto al passato: perché parlarne ancora e, soprattutto, perché dovrebbe interessarmi se non sono omosessuale o transessuale?

Per rispondere a questa domanda citiamo una serie di dati che riguardano il nostro Paese e che sono raccolti nella Rainbow Europe Map 2022.

Secondo la fotografia che restituisce questo report, nel 2022 l’Italia:

  • è al 26esimo posto su 27 Paesi per uguaglianza e non discriminazione
  • è al 33esimo posto su 49 Paesi riguardo le tutele e i progressi verso la comunità Lgbtq+
  • è al 20esimo posto su 24 Paesi per il riconoscimento giuridico delle famiglie arcobaleno
  • è ultima per quanto riguarda i discorsi d’odio (non ha nessuna legge contro l’omotransfobia)

Inoltre, secondo l’Istat, 1 persona queer su 5 ha subito aggressioni al lavoro e il 68,2% teme di essere vittima di violenze e continuano purtroppo a verificarsi episodi estremi di omofobia anche all’interno delle famiglie stesse.

Quindi, ne è stata fatta di strada negli ultimi decenni? Sicuramente.

Ce n’è ancora di strada da fare per arrivare a una società in cui le persone queer si possano sentire sicure e con le stesse opportunità delle persone eterosessuali (non appartenenti a minoranze)? Di nuovo, sicuramente.

Omofobia, razzismo, misoginia… Sono tutte conseguenze di una cultura intollerante e che ha paura della diversità, di una cultura che prevede che ci siano determinate persone che, in quanto detentrici di una serie di caratteristiche, sono in grado di controllare la vita e le scelte di altre.

Ma chi le sceglie queste caratteristiche? Chi decide cosa è meglio? Com’è possibile pensare che nel caso di scelte personali ci sia un “meglio” o un “giusto” quando nel mondo siamo quasi 8 miliardi di persone, tutte diverse l’una dall’altra?

L’idea che un domani potremmo essere noi stess* a essere discriminat* in funzione di una qualche caratteristica che qualcun altr* deciderà essere “più giusta” o “migliore” dovrebbe farci capire che il problema dell’intolleranza, da sempre, ci riguarda tutt*.

Anche se (fino ad ora) magari abbiamo avuto la fortuna di non averne mai dovuto subire le conseguenze negative.