Axura Logo
Axura Blog

SPUNTI E CONVERSAZIONI DI UN’AGENZIA
SPECIALIZZATA IN INTERAZIONI DIGITALI

SPUNTI E CONVERSAZIONI

Home » Linguaggio inclusivo » Linguaggio inclusivo di genere in azienda: vantaggi, implicazioni ed esempi di una scelta non discriminante

Linguaggio inclusivo di genere in azienda: vantaggi, implicazioni ed esempi di una scelta non discriminante

Stella Fumagalli

Tempo di lettura: 10′

Benvenuto sul blog di Axura!

Fino a qualche anno fa avrei scritto questa frase senza pormi nessun problema.

Tempo dopo avrei preferito scrivere: “Benvenuto / a sul blog di Axura!” perché avrei cominciato a non essere più d’accordo con l’uso indiscriminato del maschile sovraesteso (ovvero “lo standard, nella lingua italiana, di usare il maschile quando si intende indicare un gruppo di persone in cui ci sia almeno un componente maschile, a prescindere dal numero di componenti femminili”).

Ora scriverei “Ti diamo il benvenuto sul blog di Axura!” oppure “Benvenutə sul blog di Axura!”.

Anche io, come tantissime altre persone, ho iniziato un percorso (mi trovo poco più che all’inizio) che mi ha portato a non dare per scontata la persona chi mi legge: si identifica con il genere femminile, maschile, nessuno dei due o entrambi?

Perché è importante per me tenerlo in considerazione e perché sono sempre di più le persone e le aziende che lo fanno o che, almeno, ci provano (come noi, in Axura)?

Non ho ancora utilizzato l’espressione “linguaggio inclusivo” (forse perché sono consapevole che solo a sentirla nominare il pensiero di tante persone sarà “ci risiamo” e “ i problemi sono ben altri” e ne parleremo più avanti) ma proprio di questo si tratta: tuttavia è necessario fare una precisazione.

Linguaggio inclusivo indica un linguaggio che tiene in considerazione la presenza di minoranze che di solito non sono rappresentate (o non lo sono abbastanza o lo sono in modo stereotipato): possono essere le donne, il collettivo omosessuale o transessuale ma anche le persone disabili o di particolari etnie.

L’espressione è però passata a indicare nell’uso comune l’utilizzo di un linguaggio che tiene in considerazione / rispetta le diverse identità di genere di chi ascolta o legge (linguaggio di genere): anche noi, in questo approfondimento, ci concentreremo su questo aspetto senza dimenticarci però che l’inclusione andrebbe estesa a molti più ambiti.

L’obiettivo di questo approfondimento è raccontare alcuni esempi di aziende, brand e istituzioni che hanno scelto di adottare il linguaggio inclusivo, condividere qualche consiglio pratico per eludere il maschile sovraesteso nel comunicare con chi ci legge e analizzare perché si tratta di una scelta che si fa sempre più determinante quando arriva il momento di decidere se relazionarsi con questa o quella realtà.

Linguaggio inclusivo: un’evoluzione recente?

L’attenzione riguardo a questo tema è cresciuta a dismisura nell’ultimo periodo e ne hanno parlato un po’ tutti, comprese le testate più conservatrici che vedono nel linguaggio inclusivo una minaccia per l’italiano (niente di più lontano dalla realtà, come vedremo più avanti); tuttavia in Italia si comincia a parlare di inclusione e linguaggio già negli anni ’80.

Nel 1987 Alma Sabatini pubblica “Il sessismo nella lingua italiana” (disponibile interamente in pdf in questa pagina) per conto della Commissione Nazionale per la parità e le pari opportunità tra donna e uomo; in questo libro la linguista sottolineava il mancato uso di termini istituzionali e di potere declinati al femminile (ministra, sindaca, assessora, ecc. – un fenomeno più che mai attuale di cui si continua a discutere a oltre trent’anni di distanza).

Nel 2008 il Parlamento Europeo è stato una delle prime organizzazioni internazionali ad adottare linee guida multilingue sulla neutralità di genere nel linguaggio; queste linee guida sono poi state riviste e aggiornate in occasione del 10° anniversario del documento, nel 2018 (l’immagine del documento con uomo-pantaloni e donna-gonna è tremendamente binaria e in contrapposizione con le linee guida, ma tant’è).

Al giorno d’oggi non si può più dire niente!”, “Si è sempre fatto così e nessuno si è mai lamentato!” sentiamo dire sempre più spesso: falso, falsissimo. Non si tratta affatto di battaglie recenti (e anche se lo fossero comunque questo non toglierebbe legittimità e/o importanza) ma da decenni ci si interroga sull’uso inclusivo (o meno) della lingua e sulle possibilità che le varie lingue offrono per essere meno discriminanti.

Perché le aziende dovrebbero interessarsi all’uso del linguaggio inclusivo?

Prima di tutto una precisazione: un’azienda che si avvicina al linguaggio inclusivo – che se ne interessa e ne valuta l’adozione – sarà con tutta probabilità un’azienda che ha già fatto determinate scelte che vanno in questa direzione: parità salariale, attenzione alla diversità sul posto di lavoro, ambiente che contrasta le discriminazioni, etc.

In poche parole, un’azienda che offre a chi ci lavora un certo grado di sicurezza psicologica, ovvero la tranquillità di potersi esprimere e di poter esprimere le proprie idee e il proprio potenziale in un ambiente sicuro, non discriminante e che permetta di crescere senza il timore di emarginazioni.

Tuttavia, sebbene il fine ultimo di tutte queste pratiche sia appunto quello di “includere”, è inevitabile che come effetto ci sarà anche l’esclusione di coloro che non si trovano d’accordo con questi principi; se tutte le aziende (o almeno la maggior parte) remassero nella stessa direzione però si arriverebbe a un punto in cui anche chi non è d’accordo con l’inclusione avrebbe poche alternative a sua disposizione e, si spera, potrebbe trovare più di una motivazione nel rivedere le sue idee sotto un’altra luce.

Come abbiamo detto spesso, infatti, le aziende con il loro operato aiutano a dare forma alla realtà che ci circonda e inevitabilmente sono in grado di influire sulla direzione che la società prende: tra le altre cose, anche scegliere di utilizzare un linguaggio inclusivo contribuisce a orientarsi in una determinata direzione (come ha fatto anche Google).

Tra tutte le aziende che decidono di utilizzare un linguaggio inclusivo certamente c’è chi lo fa per una mera questione di immagine, è inutile negarlo: è ormai chiaro che le nuove generazioni preferiscono i brand più etici e inclusivi e non c’è da meravigliarsi quindi che realtà poco interessate alla parità di diritti si trovino comunque a cavalcare l’onda dell’inclusione per scopi commerciali.

Ma la conseguenza dell’adozione di questo tipo di linguaggio è che – anche nelle comunicazioni istituzionali – venga naturale utilizzarlo facilitando così tutta una serie di processi: pensiamo per esempio a tutti i messaggi automatici / standard come saluti, ringraziamenti per iscrizioni, avvisi di errore…

Messaggio automatico sul sito di Trenitalia che non utilizza il linguaggio inclusivo (adulto / passeggero)

Trovare modi di esprimersi che tengano conto della diversità senza ricorrere ad espedienti che ostacolino la fluidità del testo è necessario per offrire una buona esperienza utente.

Torniamo agli esempi che ho fatto all’inizio del post:

Benvenuto/a sul blog di Axura”: l’uso di “o/a” alla fine di una parola è uno degli espedienti che si possono utilizzare per non riferirsi solo a un pubblico maschile ma appesantisce la comunicazione e tiene conto solo del genere maschio / femmina.

Ti diamo il benvenuto sul blog di Axura”: si adatta a tutte le identità di genere di chi legge e scorre bene, non ci sono intoppi / ostacoli nella lettura o comprensione del messaggio.

Oppure l’esempio di Trenitalia dell’immagine precedente: invece di adulto avremmo potuto mettere “persona adulta” oppure “persona 18+” (in base all’età dalla quale Trenitalia considera che si debba a iniziare a pagare il biglietto intero), oppure “utente”.

Per quanto riguarda la parola “passeggero” avremmo potuto toglierla dalla frase e non ne avremmo sentito la mancanza: “Attenzione! I dati contrassegnati da asterisco sono obbligatori”.

Il linguaggio inclusivo quindi è anche una questione di user experience e di ux writing: andiamo allora a vedere in che modo possiamo utilizzarlo senza sacrificare la leggibilità di un testo.

Modi per aggirare il maschile sovraesteso

Come abbiamo detto per maschile sovraesteso intendiamo lo standard, nella lingua italiana, di usare il maschile quando si intende indicare un gruppo di persone in cui ci sia almeno un componente maschile, a prescindere dal numero di componenti femminili.

In italiano esiste anche il femminile sovraesteso anche se non è universalmente riconosciuto: in questo caso applichiamo il femminile quando ci rivolgiamo a un gruppo composto in prevalenza da femmine, ma non è inclusivo così come non lo è il maschile sovraesteso (non si tratta di una battaglia tra maschile e femminile ma di un tentativo di includere quante più persone possibile).

1. Perifrasi

Utilizzare un linguaggio inclusivo spesso richiede giri di parole (perifrasi) e quindi sì, più di una volta ci ritroveremo a formulare frasi più lunghe di quelle che utilizzeremmo con un linguaggio però più discriminante.

Facciamo qualche esempio di perifrasi che ho dovuto affrontare proprio durante la stesura di questo post:

Esempio 1

daremo qualche consiglio pratico per eludere il maschile sovraesteso nel comunicare con chi ci legge e vedremo …

La frase che mi era venuta in mente inizialmente era: “daremo qualche consiglio pratico per eludere il maschile sovraesteso nel comunicare con i nostri interlocutori”.

Ho cercato un modo per dire la stessa cosa senza utilizzare nomi che potessero essere declinati a seconda del genere.

Esempio 2

Pensiamo allora all’annuncio di un Comune che si rivolge alla cittadinanza” (questa frase la trovate più avanti nel testo)

La frase che mi era venuta in mente inizialmente era: “Pensiamo allora all’annuncio di un Comune che si rivolge ai cittadini”.

Esempio 3

Il linguaggio inclusivo quindi è anche una questione di user experience e di ux writing, andiamo quindi a vedere in che modo possiamo utilizzarlo senza sacrificare la leggibilità di un testo.

La frase che mi era venuta in mente inizialmente era: “Il linguaggio inclusivo quindi è anche una questione di user experience e di ux writing, andiamo quindi a vedere in che modo possiamo essere inclusivi senza sacrificare la leggibilità di un testo”.

2. Evitare i participi passati

Il participio passato in italiano si accorda in genere e numero con il complemento oggetto o con l’oggetto della frase.

Ecco qualche esempio per evitarlo:

Esempio 1

Grazie per esserti registrato alla prova gratuita!

Alternative neutre

Grazie! La tua registrazione alla prova gratuita è andata a buon fine!

Grazie per aver completato la registrazione alla prova gratuita!

Esempio 2

Seguici per restare sempre aggiornato sulle novità

Alternativa neutra: Seguici per ricevere tutti gli aggiornamenti sulle novità

3. Girare la frase

Girando il punto di vista della frase possiamo eludere l’utilizzo di nomi da accordare in genere e numero.

Esempio 1

Scopri se sei stato scelto per partecipare

Alternativa neutra: Scopri se puoi partecipare

Esempio 2

Sei soddisfatto dei nostri prodotti?

Alternativa neutra: I nostri prodotti ti soddisfano?

Esempio 3

Sicuro di voler procedere?

Alternativa neutra: Vuoi davvero procedere?

Esempio 4

Sei un programmatore e cerchi lavoro?

Alternativa neutra: Lavori nella programmazione e cerchi un impiego?

Esempio 5

Gli interessati possono mandare il CV a questo indirizzo

Alternativa neutra: Il CV deve essere inviato a questo indirizzo

Esempio 6

Gli scienziati sono d’accordo nell’affermare che…

Alternativa neutra: La comunità scientifica è d’accordo nell’affermare che…

Altri espedienti inclusivi non ancora accettati dalla norma linguistica (e i loro limiti)

Vi sarà di sicuro capitato di incappare in diversi espedienti utili per poter aggirare il maschile sovraesteso senza doversi inerpicare in giri di parole:

  • l’asterisco : sei soddisfatt* dei nostri prodotti?
  • la chiocciola: sei soddisfatt@ dei nostri prodotti?
  • la x: sei soddisfattx dei nostri prodotti?
  • lo schwa (ə): sei soddisfattə dei nostri prodotti?

Piccola parentesi: cos’è lo schwa (ə)?

Nemmeno questa è un’invenzione recente del linguaggio inclusivo, si tratta infatti di una vocale centrale media presente in diverse lingue tra cui l’italiano (dove è chiamata anche scevà) in cui è presente alcuni dialetti come, tra gli altri, il napoletano o in quelli piemontesi e il suo simbolo è la e capovolta (ə).

Viene utilizzato come desinenza inclusiva perché all’interno dello schema vocalico è esattamente al centro, quindi simboleggia le diverse identità a cui ci si può riferire e poi perché ha un suono vocalico neutro.

Diagramma vocalico: in mezzo – all’interno dei cerchi gialli – lo schwa e lo schwa lungo (https://it.wikipedia.org/wiki/Diagramma_vocalico)

Lo schwa si utilizza al singolare:

Questə amicə si sforza per essere inclusivə” (non sappiamo qual è il genere della persona in questione).

Se dobbiamo riferirci a più persone si usa lo schwa lungo (3):

“Quest3 amich3 si sforzano per essere inclusiv3”

Per un approfondimento sull’uso dello schwa in italiano e sulla sua pronuncia vi rimandiamo a questo bellissimo articolo di Alice Orrù.

Tornando ai vari espedienti per eludere il maschile sovraesteso: saranno probabilmente imperfetti (alcuni più di altri) ma sono tutti modi in cui le persone / le aziende si sforzano di portare avanti l’inclusione, quindi vanno comunque apprezzati per l’obiettivo che si pongono.

Tuttavia, hanno dei limiti:

il primo importante limite è che si tratta di modi di esprimersi che non vengono (ancora) insegnati a scuola e che sono tipici in alcuni contesti ma molto meno in altri, quindi comprensibilmente ci sarà tutta una fetta di popolazione che non li ha mai incontrati.

Pensiamo allora all’annuncio di un Comune che si rivolge alla cittadinanza usando lo schwa o la chiocciola: quante persone non saprebbero come interpretare quel simbolo o penserebbero che si tratta di un errore di battitura?

Un altro limite (al quale anche noi non avevamo pensato fino a quando non abbiamo letto questo interessantissimo articolo) è quello legato ai lettori di schermo che sono in difficoltà quando devono intepretare questi elementi.

Quindi un lettore di schermo si ritroverà a dire:

sei soddisfatt-asterisco dei nostri prodotti?” / “sei soddisfatt-chiocciola dei nostri prodotti?” / “sei soddisfatt-e rovesciata dei nostri prodotti?

La bella notizia è che i lettori di schermo si evolvono rapidamente quindi possiamo sperare che siano presto in grado di riconoscere le diverse convenzioni che si affermeranno in futuro per poterne assicurare un impiego che non renda difficoltosa l’esperienza d’uso in questi casi.

Linguaggio inclusivo di genere: non è solo questione di desinenze

Il nostro progetto editoriale Mestruazioni Senza Tabù ci ha messo davanti a un’altra questione che va ben al di là delle desinenze di nomi e aggettivi: all’inizio parlando di chi ha le mestruazioni ci veniva naturale fare sempre riferimento alle donne.

Iniziando però a seguire vari profili di chi fa attivismo ci siamo imbattuti da una parte in uomini trans (nati donna ma che si identificano con il genere maschile) che hanno le mestruazioni e, dall’altra, in donne trans (nate uomini ma che si identificano con il genere femminile) che non hanno le mestruazioni.

Oltre a questi casi, ci sono persone nate femmine ma che non si identificano con nessun genere, né femminile né maschile.

Quindi abbiamo realizzato che non solo le donne hanno le mestruazioni: ha le mestruazioni chi ha un utero; una donna trans – nata uomo ma che si identifica come donna (magari essendosi anche sottoposta a vaginoplasitica) – è donna ma non ha le mestruazioni.

Quindi invece di dire “le donne” per riferirci a chi ha le mestruazioni abbiamo iniziato a dire “chi ha le mestruazioni / chi mestrua”.

Fonte: https://janetmock.com/2013/09/12/men-who-date-attracted-to-trans-women-stigma/

Allo stesso modo sarebbe più corretto dire “chi ha problemi di prostata” invece di dire “gli uomini con problemi di prostata” per tenere conto di tutte le persone che appunto si identificano come donne (o non si identificano come uomini) ma che anatomicamente hanno il pene.

Un altro esempio è quello del personale di ostetricia del Brighton and Sussex University Hospitals NHS Trust che ha deciso di riferirsi all’allattamento al seno con l’espressione “allattamento al petto” per includere le persone trans, no binarie, le donne che si sono sottoposte a un intervento di rimozione del seno o chi più in generale ha subito traumi legati al seno e che è sensibile all’uso di questa parola.

Lo sappiamo: è molto faticoso ricordarsi di tutte queste situazioni e cercare di includerle tutte nella comunicazione, e lo è soprattutto se consideriamo la logica binaria che ci hanno inculcato fin dall’infanzia e che ci potrebbe portare a dire: “ma chi me lo fa fare?”.

Qui entrano in gioco le scelte personali e il valore di posizionarsi: magari sbagliando, magari in modo imperfetto, magari non arrivando dappertutto ma comunque provandoci, facendo il primo passo; fare qualcosa al riguardo è già un modo di contribuire alla causa.

Le critiche al linguaggio inclusivo (e come rispondere)

Il linguaggio inclusivo provoca reazioni contrastanti tra chi è d’accordo e chi inorridisce e questi punti di vista differenti sfociano talvolta in discussioni anche molto accese: ne ha scritto la linguista Vera Gheno (tra l’altro tra le prime personalità a parlare dell’uso dello schwa nella lingua italiana) in un articolo in cui risponde (dizionario alla mano, come dice lei) alle critiche che più di frequente vengono mosse al linguaggio dell’inclusione basandosi non solo sulle regole della lingua italiana ma anche sul buonsenso.

Sebbene questo articolo si riferisca principalmente all’uso dei nomi femminili nelle professioni, alcune delle critiche riportate sono le stesse che vengono mosse anche al linguaggio inclusivo in generale e quindi anche le relative risposte sono altrettanto valide.

Di seguito riprendiamo alcune di quelle non strettamente legate all’aspetto grammaticale della questione ma più a quello ideologico:

1. “Che importa? Sono solo parole

Vero, peccato che le parole non sono mai solo un asettico insieme di lettere: chi parla utilizza le parole per capire la realtà, per assimilarne i concetti e per dare una certa immagine di sé a chi ascolta.

La scelta di utilizzare una parola rispetto a un’altra forse (per alcune persone) non è un processo consapevole ma in realtà non è mai una decisione aleatoria, bensì determinata da diversi fattori (culturali, ambientali, economici, etc.).

Dare un nome a qualcosa ci permette di “vederlo meglio”, di studiarlo e di comprenderlo.

Quindi sì, sono parole ma non sono “solo” parole.

2. “I problemi importanti sono altri

Secondo Oxford Languages “l’atteggiamento di chi elude un problema sostenendo che ce ne sono altri, più gravi, da affrontare” si chiama benaltrismo, ed è proprio il fenomeno che abbiamo davanti quando viene mossa questa critica.

Il punto è che ci sarà sempre un problema più importante di un altro (sia soggettivamente che probabilmente anche oggettivamente) quindi secondo questa logica bisognerebbe smetterla di preoccuparsi di tutti i problemi per arrivare ad occuparsi solo del “problema definitivo”, quello più importante di tutti: qual è? Chi lo decide? E se non sono d’accordo?

Ognuno sceglie le proprie battaglie (e, di solito, chi si batte per il linguaggio inclusivo si batte anche per la parità dei diritti in tante altre situazioni) e per fortuna non sono tutte uguali.

3. “Dovremmo fare come l’inglese che non fa differenza tra maschile e femminile

L’italiano però non è l’inglese, è un’altra lingua con una struttura totalmente diversa: l’italiano ha il genere grammaticale mentre l’inglese ha sostantivi neutri.

In italiano quindi dobbiamo per forza fare l’accordo in genere e numero (a meno di utilizzare perifrasi) mentre l’inglese non si trova in questa situazione sebbene anche in inglese ci sia lo stesso problema, con i pronomi (he/she/her/him etc.).

4. “Se si tratta di una questione di parità perché evidenziare le differenze?

Parità non vuol dire omologazione: la parità prevede che qualsiasi persona, con le proprie particolarità, abbia gli stessi diritti che spettano alle altre persone nonostante siano diverse.

5. “Il linguaggio inclusivo porta alla morte dell’italiano

Niente affatto: il linguaggio inclusivo non vuole eliminare quello che già c’è ma vuole aggiungere più strumenti per potersi esprimere in maniera meno discriminante.

Chi pensa che siano paturnie che esistono solo in Italia, poi, potrà trovare interessante sapere che la maggior parte delle lingue romanze sta affrontando gli stessi identici dibattiti.

6. “I generi sono solo due

Questa affermazione non ha bisogno di dizionari o di buonsenso per essere smontata, perché ci pensa la scienza.

Sono i sessi ad essere solo due e sono determinati dall’anatomia (presenza di pene o vagina + caratteri sessuali secondari quindi seno, barba, etc.).

Volendo essere precisi in realtà i sessi sono tre se prendiamo in considerazione anche le persone intersessuali, ovvero coloro che hanno i caratteri sessuali primari e/o secondari che non sono definibili come esclusivamente maschili o femminili.

I generi invece sono… tanti e con diverse sfumature.

Il genere è la percezione di ciò che siamo, maschio, femmina, entrambi o nessuno dei due.

Una persona con il pene può sentirsi uomo, donna, o non sentirsi nè donna nè uomo (stesso discorso si può applicare a una persona con la vagina).

7. “Perché dovrebbe importarmi delle differenze e di come si sente chi legge o ascolta?”

Giro la domanda: perché non dovrebbe importarcene?

Non siamo il centro del mondo e le nostre esperienze personali e soggettive non sono né universali né universalmente accettate / condivise.

Se una questione sta a cuore a tante persone potrebbe essere utile, anche se non ci tocca direttamente, ascoltare le esperienze altrui: perché è così importante per loro? Cosa porta queste persona a battersi per questo? Cosa non sto tenendo in considerazione?

Ci sono una serie di situazioni traumatiche, di violenza o emarginazione che difficilmente si riescono a percepire se non ne facciamo esperienza diretta e di cui possiamo essere a conoscenza solo ascoltando chi le ha vissute.

Come non mostrare empatia nei confronti di persone la cui vita è stata segnata da ingiustizie (indipendentemente dalla loro portata) reiterate nel tempo?

Per concludere, è importante sottolineare che rispondere alle critiche sul linguaggio inclusivo non significa automaticamente voler convincere del contrario; si può discutere di punti di vista diversi nel rispetto delle idee altrui e arricchirsi attraverso questa esperienza sebbene le nostre convinzioni restino quelle di prima.

Casi illustri di uso del linguaggio inclusivo di genere

Abbiamo già visto che il Parlamento Europeo ha stilato nel 2008 un documento con le linee guida per l’uso di un linguaggio inclusivo ma, per fortuna, i casi di realtà che hanno scelto di adottare un linguaggio non discriminante sono molti di più.

Alcuni li abbiamo conosciuti attraverso l’approfondimento sul linguaggio inclusivo di Silvia Ghisi in arte Cuciverba: vediamoli insieme!

1. Agenzia delle Entrate

Nel 2020 ha stilato le ​​”Linee guida per l’uso di un linguaggio rispettoso delle differenze di genere“.

2. Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca

Nel 2018 ha pubblicato le “Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo del Miur”.

3. Università degli Studi di Padova

Nel 2018 pubblica sul sito ufficiale una lettera del Magnifico Rettore riguardo all’uso del linguaggio inclusivo.

4. Comune di Castelfranco Emilia

Questo Comune della provincia di Modena ha iniziato nel 2021 a utilizzare lo schwa nelle sue comunicazioni alla cittadinanza.

5. Lufthansa

La compagnia aerea tedesca ha deciso di abbandonare il classico saluto a chi viaggia a bordo degli aeroplani dell’aerolinea (a cui si è sempre riferita utilizzando “Ladies and Gentlmen” – signore e signori) preferendo l’utilizzo di “guests” (in italiano è “ospiti” ma in inglese ha genere neutro) oppure limitandosi a dire “Good morning here on board”. (“Vi diamo il buongiorno a bordo”).

In conclusione

Noi come Axura abbiamo cominciato ad avvicinarci al linguaggio inclusivo con l’inizio del progetto Mestruazioni Senza Tabù che, per forza di cose, ci ha portato a confrontarci con persone molto attive nel tema dell’inclusione e da cui abbiamo imparato molto.

Il nostro percorso è agli inizi e per questo cerchiamo ogni giorni di migliorare e di utilizzare un linguaggio sempre più inclusivo nelle nostre comunicazioni e in quelle che facciamo per le realtà che scelgono di lavorare con noi.

Come abbiamo già detto prima, dietro l’adozione del linguaggio inclusivo in azienda ci sono altre scelte di fondo (coerenti con questa decisione): certo, un’impresa può sempre scegliere di non essere inclusiva, di non voler offrire sicurezza psicologica, di creare un ambiente con altre premesse e ideali, tutte decisioni (nel limite di legge) più che legittime.

Ci piace però pensare che, tristi passi indietro a parte, la civiltà umana stia andando in un’altra direzione.

Per chi volesse approfondire l’argomento del linguaggio inclusivo di genere c’è tanto materiale utile che esplora diversi punti di vista:

Se volete segnalarci altre risorse (ci farebbe molto piacere) o ragionare insieme a noi sul tema, vi aspettiamo nei commenti!