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Dallo storytelling ai 3 storydoing aziendali: come far crescere brand e aziende con azioni concrete

Stella Fumagalli

Tempo di lettura: 10′

Nel nostro blog abbiamo parlato spesso di storytelling e, facendolo, abbiamo anche parlato di storydoing (ovvero dell’insieme di azioni che un’azienda mette in pratica per essere coerente con il suo storytelling) ad esempio quando abbiamo scritto riguardo la responsabilità sociale d’impresa (CSR) e il marketing legato ad essa.

Che differenza c’è tra storytelling e storydoing?

Se l’obiettivo dello storytelling è quello di comunicare con i nostri interlocutori, raccontare storie che ci permettano di avvicinarci al pubblico, lo scopo dello storydoing, invece, è quello di creare esperienze a cui le persone possano prendere parte e che possano condividere con gli altri.

Si tratta quindi di portare sul piano reale, della vita di tutti i giorni, i valori che definiscono il brand attraverso esperienze associate al brand stesso: passare – in sostanza – dalle parole ai fatti.

Storytelling vs & storydoing

Ultimamente accade sempre più spesso, quando si parla di storydoing, di vederlo posto in contrapposizione allo storytelling: allo storytelling in questo “confronto” tocca fare la parte della tecnica mainstream, passata, démodé, nettamente sorpassata dallo storydoing che invece è virtuoso, autentico e attuale.

Tuttavia questo voler necessariamente decretare un vincitore tra i due (e lasciar intendere che il primo gradino del podio sia sempre per lo storydoing) non porta da nessuna parte perché storydoing e storytelling giocano in squadra aiutandosi a vicenda per raggiungere lo stesso obiettivo: lo storytelling racconta e lo storydoing crea quella sostanza, allineata con i valori del brand, che può essere oggetto di racconto (non dev’essere per forza l’unico oggetto del racconto, anzi, ma le aziende che dicono “non abbiano nulla da raccontare”, con lo storydoing creerebbero qualcosa che vale la pena di essere narrato) con lo scopo di creare una relazione di valore con il pubblico.

Abbiamo detto molte volte che è facile dichiarare una serie di valori “sulla carta”, lo è meno metterli in pratica ed essere coerenti con ciò che dichiariamo ma non solo a livello di azienda, anche a livello “personale”.

I tre livelli dello storydoing in azienda

Sempre più spesso il ruolo delle persone in azienda ha un peso importantissimo nel racconto d’insieme, non solo con la figura dell’amministratore delegato che passa ad essere il volto pubblico dell’impresa, l’incarnazione dei valori che essa ha adottato, ma anche passando per i dipendenti fino ad arrivare all’azienda stessa che viene “umanizzata” dal mercato.

1) Primo livello: dipendenti e storydoing

Un’azienda sostanzialmente è l’insieme delle persone che la compongono: mai come ora il mercato si aspetta che chi lavora per un brand ne incarni i valori anche nella vita privata.

Questo apre un dibattito: il dipendente di un’azienda di prodotti vegani può essere giudicato perché consuma prodotti di origine animale? La scelta del suo regime alimentare non ha ragione di condizionare il suo operato sul lavoro o la credibilità dell’azienda stessa, eppure di sicuro una parte di consumatori perderebbe fiducia nel brand se sapesse che i suoi impiegati non sono vegani.

Fino a che punto un’azienda può “spingersi” nel richiedere ai propri dipendenti di aderire ai valori che vuole comunicare al pubblico sebbene non siano i propri?

Se appunto chiedere di cambiare le proprie abitudini a favore della cultura aziendale può essere “al limite”, non lo è di certo organizzare in azienda eventi e momenti di educazione / confronto ai quali i dipendenti possono partecipare: è qui che le risorse umane entrano in gioco per pianificare iniziative che possano coinvolgere i dipendenti.

Così un brand di abbigliamento sostenibile può educare i propri dipendenti sulle conseguenze della fast fashion, un brand di abbigliamento sportivo dovrà assicurarsi che alla mensa aziendale vengano serviti cibi salutari per promuovere uno stile di vita sano, etc.

2) Secondo livello: C-Level e storydoing

Nel 2011 un video nel quale l’allora CEO di GoDaddy Bob Parsons sparava a un elefante in Africa faceva il giro del mondo causando un notevole danno di immagine (e, di conseguenza, economico) all’azienda.

Mentre sparava all’elefante, infatti, per il pubblico Bob Parsons continuava a vestire i panni di CEO di GoDaddy, benché in quel momento non stesse ufficialmente lavorando nè rappresentando la compagnia; la richiesta ai rappresentanti e ai dipendenti delle organizzazioni di incarnare i valori aziendali anche nella vita privata è – nel bene o nel male – sempre più chiara e decisa da parte del mercato.

Qualcuno potrebbe ribattere che tra i valori di GoDaddy non c’è quello di salvaguardare la fauna africana; senz’altro vero, ma sparare a un elefante è visto dalla maggior parte delle persone come un gesto brutale, proprio di una persona che ha poco rispetto per la natura e la vita altrui: qualcosa di inumano, insomma, che si scontra con la volontà delle persone di scegliere brand con cui possano connettersi dal punto di vista emotivo e con i quali si possano identificare (un bracconiere, infatti, non si sarà sentito tradito o deluso dal comportamento di Parsons).

Il CEO ha (anche) un ruolo pubblico nei confronti dell’azienda, quindi è comprensibile che ci si aspetti che rappresenti l’azienda in tutto e per tutto: cioè non significa che le altre figure manageriali dell’azienda (i cosiddetti C-Level) possano sottrarsi poiché tutti loro sono diretti rappresentanti della cultura aziendale anche sul piano personale.

3) Terzo livello: l’azienda come persona e storydoing

Tutti tendiamo a “umanizzare” i grandi brand: quando veniamo a sapere che un famoso marchio di moda fa uso di manodopera infantile non pensiamo che “le persone che prendono le decisioni in quell’azienda siano persone senza scrupoli”, ma pensiamo che il brand stesso sia senza scrupoli.

Allo stesso modo, quando durante l’emergenza COVID-19 abbiamo visto dalle aziende tantissimi esempi virtuosi (per esempio Decathlon che ha smesso di vendere le maschere da snorkeling Easybreath Tribord per trasformarle in supporti per ventilatori che gli ospedali potessero usare per i pazienti con difficoltà respiratorie), nel percepito è stata l’azienda ad aver fatto una buona azione, non le persone dietro a questa o quella decisione.

Pensare che lo storydoing sia solo la messa in pratica sistematica dei valori di un’azienda (dico di voler proteggere l’ambiente → vado a pulire le aree verdi della mia città) non è abbastanza; agire concretamente sulla base di ciò che più è importante per un’organizzazione è qualcosa che deve spingere l’organizzazione stessa a plasmare l’offerta che rivolge al mercato e, ancora prima, a scegliere se entrare o meno in certi mercati.

Storydoing e (in)coerenza: Google e Unilever

Quando ci sono di mezzo i profitti non sempre è facile essere coerenti con i propri valori: prendiamo l’esempio di Google e la sua decisione di non fare accordi con la Cina perché le richieste relative alla privacy degli utenti del Governo Cinese andavano contro i valori di Google sui diritti umani; tuttavia nel 2018 l’opinione pubblica viene a sapere del “progetto “Dragonfly”, un motore di ricerca sviluppato da Google compatibile con il sistema di censura cinese che avrebbe reso accessibili dal Governo le ricerche degli utenti riguardo informazioni considerate “sensibili”.

Il progetto ha ovviamente ricevuto moltissime critiche, ad esempio da Amnesty International ma anche dagli stessi impiegati di Google che hanno spesso fatto sentire la loro voce per dichiararsi contrari allo sviluppo di Dragonfly che – infine – fu dichiarato annullato a luglio 2019 e Google continua ufficialmente a non essere disponibile in Cina.

In questo caso lo storytelling di Google non è risultato allineato con il suo storydoing: la decisione di annullare Dragonfly non è nata da una sensibilità verso la salvaguardia della privacy dei cittadini cinesi ma dalle critiche arrivate da più fronti e dal conseguente danno d’immagine che avrebbero arrecato alla compagnia.

A dare una lezione di storydoing arriva invece Unilever i cui valori sono (tra gli altri) rispetto, integrità, responsabilità e creare un impatto positivo attraverso il brand e i suoi prodotti: per questo – sebbene non ci sia una legge in questo senso – Unilever ha deciso in autonomia di cambiare il suo modo di fare marketing per tutelare i bambini.

Questa decisione arriva dopo le dichiarazioni della OMS che ha evidenziato come l’obesità infantile stia diventando uno dei maggiori problemi di salute dei nostri tempi; per questo Unilever ha deciso di non indirizzare più le sue pubblicità (relative a gelati o alimenti processati) sui social a bambini minori di 13 anni, non userà testimonial sotto ai 12 anni ed eviterà di dirigersi direttamente ai bambini nella pubblicità.

In questo modo non solo Unilever “guadagna punti” nel percepito degli utenti visti come clienti (acquisiti o potenziali) ma anche nel percepito di possibili collaboratori e candidati, dando un’immagine dell’azienda come quella di un posto nel quale voler lavorare o con il quale voler collaborare.

Lo storydoing, infatti, è utile anche per l’employer branding e per questo, come dicevamo anche prima, chi si occupa di risorse umane in azienda ha un ruolo importante nel coinvolgere le persone in azioni concrete e incentivare una cultura aziendale che si traduca anche in azioni, buone abitudini e scelte coraggiose sempre coerenti con i valori dell’organizzazione.

Qual è la differenza tra storydoing e CSR?

Sempre qui sul blog abbiamo visto come tradurre in azioni concrete i valori di un’azienda stia alla base della responsabilità sociale d’impresa: quindi CSR e storydoing sono la stessa cosa?

È inevitabile che per molti aspetti si sovrappongano, praticamente sempre quando le azioni intraprese mirano a migliorare il mondo e la vita delle persone che lo abitano.

In altre occasioni la differenza tra CSR e storydoing è più evidente: lo storydoing che è letteralmente passato alla storia è quello di Red Bull Stratos che ha visto come protagonista il paracadutista austriaco Felix Baumgartner, lanciatosi in caduta libera dalla stratosfera a 39.000 di altezza.

Red Bull è sempre stata in prima linea negli eventi sportivi che spingono le persone a superare i propri limiti: con Red Bull Stratos il brand ha letteralmente “messo le ali” a Felix Baumgartner che – saltando dal bordo dello spazio – ha rotto la barriera del suono e stabilito tre record mondiali.

In questo caso lo storydoing non si sovrappone alla CSR: l’impresa di Baumgartner – benché incredibile e sicuramente motivante per tante persone – non ha come obiettivo migliorare il mondo o la vita delle persone, bensì rendere realtà lo slogan dell’energy drink “Red Bull ti mette le ali”.

Riconoscere le imprese che fanno storydoing: i 6 punti dell’Harvard Business Review

L’impresa di Red Bull è stata davvero storica ed è un esempio lampante di storydoing; come fare a riconoscere un’azienda che fa storydoing ma che magari non è in grado di organizzare eventi di questa portata?

Un articolo pubblicato sull’Harvard Business Review ci dà 6 punti per capire quando siamo davanti a un’azienda che fa storydoing:

  1. è un’azienda che ha una storia
  2. la storia racconta il desiderio di rendere il mondo un posto migliore o di migliorare la vita delle persone che vi abitano
  3. i dirigenti dell’azienda ne conoscono la storia e ne hanno a cuore i principi, anche se non fanno parte dell’ufficio marketing
  4. la storia dell’azienda è il punto di partenza per una serie di azioni tangibili che interessano l’intera organizzazione: sviluppo di prodotti, politiche di risorse umane, salari, etc.
  5. queste azioni fanno da collante alla cultura aziendale
  6. i clienti e i collaboratori dell’azienda vogliono essere coinvolti nella storia e la usano come ispirazione per avanzare nelle loro esperienze personali

L’ultimo punto è particolarmente significativo: riuscire a creare un vero legame con il nostro pubblico e essere in grado di farci percepire come “vicini” e “autentici” ci dà un enorme vantaggio sulla concorrenza.

Quante volte scegliamo i prodotti di un brand (magari anche più costosi e più difficili da reperire) perché ci sentiamo particolarmente identificati con quel marchio? Quanta gente sceglierà di acquistare l’abbigliamento tecnico di Patagonia perché condivide non solo la sua passione per lo sport all’aperto ma anche la volontà di mettere in circolo materiali durevoli che possono essere aggiustati e riutilizzati per moltissimo tempo?

E quante persone (come la sottoscritta) non hanno mai fatto sport all’aperto ma tessono le lodi di Patagonia e si sentono identificate con il brand perché innamorate dei suoi valori aziendali e delle iniziative che mette in atto per educare sull’importanza di riutilizzare i capi di abbigliamento?

Storytelling e storydoing possono esistere separatamente?

Chi fa storytelling non necessariamente fa storydoing, ma pensare che chiunque faccia storydoing faccia automaticamente anche storytelling è sbagliato: di certo ci sono imprese che si impegnano in azioni encomiabili ma che, forse, non raccontano.

 

È vero che l’importante sono i fatti ma, nel rapporto con i nostri interlocutori, riuscire a comunicare quello che facciamo ci aiuta a creare quella relazione di fiducia e identità in grado di fare la differenza nel percepito e nelle scelte d’acquisto.

Quello del non raccontare perché “non si ha niente da dire” è una caratteristica di tante PMI o imprese artigiane italiane (che compongono il tessuto chiave del nostro Paese), dove spesso c’è un rapporto “familiare” tra persone che lavorano a stretto contatto e dove azioni che vanno al di là della legge e del dovuto (in senso positivo) sono all’ordine del giorno; tuttavia, per tutta una serie di motivi queste azioni non vengono raccontate, molto spesso semplicemente perché non c’è abitudine a farlo.

Il risultato? Le poche aziende che raccontano le loro azioni finiscono sui giornali come “aziende illuminate”, il che è una cosa buona, ma probabilmente per ogni azienda che viene raccontata ce ne sono 1000 altrettanto brave che però, semplicemente, non danno visibilità alla propria storia e di conseguenza a loro stesse.

Per questo è ancora importante sottolineare l’importanza tra storytelling e storydoing:

  1. storytelling senza storydoing: il risultato, spesso, è una comunicazione vuota
  2. storydoing senza storytelling: un albero che cade nel bosco fa davvero rumore se non c’è nessuno nei dintorni ad ascoltarlo? Chi lo saprà mai? Ha importanza che sia accaduto?
  3. niente storytelling e niente storydoing: se questa è la situazione, vuol dire che è arrivato il momento di cambiare qualcosa; nel 2020 è davvero difficile pensare a un’azienda di successo che non racconta una storia e non la mette in pratica attraverso azioni concrete
  4. storytelling + storydoing = se fatti bene, è questa la strada!

In conclusione

Di certo il momento di emergenza che stiamo vivendo da una parte ha reso visibile il sentimento di solidarietà non solo dei singoli ma anche delle aziende, dall’altra ha messo in crisi più di una realtà che si è vista magari non tanto allineata con i valori raccontati (imprese dichiaratamente preoccupate del benessere dei dipendenti ma restie fino all’ultimo a concedere il lavoro a distanza, ad esempio).

I momenti di transizione come quello attuale sono sempre una possibilità di rimettersi in discussione (quali sono i nostri valori? Li stiamo onorando? Possiamo fare di meglio?) e, nel caso, aggiustare il tiro.

Quante aziende, ad esempio, nell’emergenza COVID-19 hanno fatto donazioni agli ospedali o pronto soccorso locali quando, magari, prima non avevano mai dato valore al territorio nel quale sono inserite?

La relazione tra il successo aziendale e la prosperità del territorio (e delle persone che vi abitano) è stata ampiamente dimostrata ed è alla base del creating shared value (CSV), un concetto costruito sulla premessa che l’affermarsi di un’azienda e il progresso economico della comunità nella quale è inserita siano interdipendenti.

Ma, di questo, parleremo in un altro post.