Recentemente abbiamo scritto un approfondimento sulla riprova sociale spiegando alcuni dei modi con i quali è possibile sfruttare questo principio nel marketing: attraverso una serie di leve gli utenti vengono stimolati a compiere l’azione che desideriamo.
La social proof è solo uno dei tanti esempi che rendono evidente come moltissime decisioni che prendiamo nella vita quotidiana (abbiano queste a che fare con un acquisto o meno) sono profondamente condizionate da meccanismi cognitivi di cui non sempre siamo coscienti o, se lo siamo, a cui difficilmente riusciamo a opporci.
Pensiamo di essere in coda in farmacia e di avere davanti a noi un cliente che vorrebbe acquistare il farmaco X: il farmacista lo informa che non è disponibile e bisognerebbe ordinarlo per poi passare a ritirarlo il giorno successivo; in alternativa però propone al cliente il farmaco Y, uguale all’altro ma prodotto da un’altra casa farmaceutica: stessa composizione, stessa forma farmaceutica e stesso principio attivo, in più con un costo inferiore.
Il cliente in questione rifiuta l’offerta dicendo che vuole solo il farmaco X e che quindi preferisce aspettare fino all’indomani per averlo (nonostante debba anche pagare di più).
Analizzata in questo modo la sua scelta non appare logica e sensata, eppure nella realtà più di una persona si sarebbe comportata come il signore dell’esempio: perché?
La risposta è de cercare nella maniera in cui il cervello elabora le informazioni che riceve: il nostro cervello sa che una quantità troppo elevata di informazioni può causare un sovraccarico informativo quindi, per evitare che accada, ricorre a una serie di stratagemmi.
Queste “scorciatoie” hanno lo scopo di aiutarci a gestire tutte le informazioni che riceviamo senza esserne sopraffatti ma, talvolta, può succedere che se vengono applicate al contesto sbagliato ci portano a pensare e/o comportarci in maniera irrazionale o illogica, dando vita a quelli che vengono chiamati bias cognitivi.
Cosa sono i bias cognitivi?
Per citare la definizione di Wikipedia, un bias cognitivo è “un giudizio (o un pregiudizio) non necessariamente corrispondente all’evidenza, sviluppato sulla base dell’interpretazione delle informazioni in possesso, anche se non logicamente o semanticamente connesse tra loro, che porta dunque a un errore di valutazione o a mancanza di oggettività di giudizio”.
I bias cognitivi sono un prodotto dell’evoluzione umana: il bisogno di prendere decisioni rapide davanti a determinati stimoli, problemi o situazioni ci ha portati a processare le informazioni a nostra disposizione in modo selettivo e/o soggettivo, scartando altre informazioni che potrebbero esserci utili per soppesare meglio la scelta.
Sebbene in alcuni casi portino a comportamenti illogici e scelte perfino controproducenti, comunque, in altri casi i bias cognitivi ci aiutano (e ci hanno aiutato dall’alba dei tempi) a prendere decisioni più efficaci, in special modo nelle occasioni nelle quali è importante prendere una decisione in modo rapido.
I bias cognitivi possono essere sfruttati nel marketing: gli utenti ormai tendono a ignorare la pubblicità tradizionale che viene “filtrata” dal cervello e classificata come informazione non desiderata; facendo leva su alcuni bias cognitivi, invece, è possibile attirare l’attenzione degli utenti (lo vedremo più avanti).
Bias cognitivi, neuromarketing e processo decisionale
I bias cognitivi sono oggetto di studio della psicologia cognitiva, ovvero la psicologia che analizza i processi mentali implicati nella conoscenza (intesa come acquisizione ed elaborazione delle informazioni).
Per questo chi si occupa di marketing si è sempre interessato alle scoperte nel campo della psicologia cognitiva: queste sono in grado di dare informazioni preziose riguardo ai processi di valutazione e decisione degli utenti quando arriva il momento di fare un acquisto.
Di tutto questo, però, si occupa anche il neuromarketing il cui obiettivo è determinare in modo più efficace i processi decisionali che avvengono nelle persone quando è il momento di fare un acquisto.
Il neuromarketing si serve delle scoperte delle varie neuroscienze (che studiano il sistema nervoso), tra cui vi è anche la neuroeconomia (di cui in neuromarketing fa parte), ovvero lo studio del funzionamento della mente umana nei processi decisionali.
L’obiettivo del neuromarketing, quindi, è capire quali sono i processi psicologici e cognitivi degli individui che sono sottoposti a determinati stimoli (pubblicità, prodotti, brand) per avere un quadro più chiaro dei meccanismi che intervengono nei processi d’acquisto.
In passato spesso la pubblicità e il marketing hanno trascurato importanti elementi che possono invece giocare un ruolo chiave nel processo decisionale: grazie al neuromarketing vengono presi in considerazione tutta una serie di fattori decisivi in queste situazioni.
I bias cognitivi nel marketing: perché sono importanti?
Nell’offerta di un prodotto o servizio ci sono sempre due parti in gioco: chi offre il prodotto/servizio e il pubblico a cui l’offerta è destinata.
I bias cognitivi interessano entrambe le parti: per l’offerente sono utili perché si tratta di tutta una serie di meccanismi in grado di influenzare profondamente le scelte e gli acquisti degli utenti; conoscendo i bias cognitivi, quindi, si può quindi imparare ad aggirarli e, anzi, utilizzarli a nostro vantaggio.
Per il pubblico, invece, è importante saperli riconoscere per essere più consapevoli nelle proprie decisioni d’acquisto (e non farsi prendere alla sprovvista).
Certo, non basta sapere cos’è un bias cognitivo per non esserne “vittima”: queste scorciatoie cerebrali prendono il sopravvento spesso senza che nemmeno ce ne accorgiamo o, anche se ce ne rendiamo conto, può essere difficile contrastarle.
Imparare a conoscerle può comunque essere un modo per riflettere meglio sulle nostre decisioni: abbiamo davvero bisogno di comprare quel cappotto o la scritta “ultimi 2 pezzi disponibili” ci fa temere che – se nel futuro avessimo voglia di comprarlo – non lo troveremmo più?
9 esempi di bias cognitivi nel marketing
Vediamo ora una serie di esempi per comprendere meglio come i bias cognitivi più comuni vengono sfruttati nel marketing:
1. Bias di supporto della scelta
Consideriamo migliori le scelte che abbiamo effettuato in confronto alle scelte che abbiamo scartato (anche se non abbiamo i mezzi per determinarlo con certezza).
Le persone, tendenzialmente, sono sensibili alle informazioni che le fanno sentire in qualche modo “migliori” se fanno una certa scelta (ad esempio se compriamo un integratore che dichiara di contenere anche acido folico come se fosse un vantaggio distintivo di quel prodotto oltre che un bene per noi, quando in realtà è una vitamina che – con una dieta corretta – le persone assumono regolarmente con gli alimenti e ad eccezione di particolari situazioni non ha bisogno di essere integrata).
2. Bias di conferma
Le persone tendono a cercare solo le informazioni che confermano ciò che già credono, un comportamento ulteriormente amplificato dai social media e dai fenomeni delle echo chamber e bolle di filtraggio.
Dare informazioni che gli utenti si aspettano non vuol dire manipolare la verità o dare dati falsi; se vendiamo spazzolini di bambù, per esempio, sappiamo che il nostro pubblico di riferimento sono persone attente all’ambiente.
Offrendo loro informazioni e dati reali sull’inquinamento dei mari causato dagli spazzolini di plastica non stiamo dando informazioni false o manipolate, stiamo offrendo loro ciò che si aspettano di sentire (gli spazzolini di plastica inquinano).
3. Framing
Il modo in cui viene detta una cosa ha un effetto positivo o negativo sulla reazione di chi ascolta che si basa quindi su come l’informazione è presentata e non sul fatto in sé. Per fare un esempio, la frase “Questo prodotto funziona 8 volte su 10” ottiene risultati migliori di “Il prodotto non ha funzionato solo due volte su 10”.
Entrambe le frasi dicono la stessa identica cosa ma, per come sono formulate, la prima sortisce un effetto positivo mentre la seconda un effetto negativo.
Il bias del framing si usa anche con i prezzi: vogliamo comprare un regolabarba e decidiamo di prendere un modello che ha una versione “base” da 70 € e una più avanzata da 110 €. Non abbiamo necessità particolari quindi decidiamo di comprare quella da 70 €.
Qual è lo stratagemma che spesso viene impiegato per portarci a considerare quella da 110 €? Alla versione base e a quella più avanzata viene affiancata anche una versione “top”, decisamente più cara (diciamo, in questo caso, 250 €).
Non abbiamo assolutamente intenzione di spendere 250 € per un regolabarba, però l’opzione base ora ci sembra poco… Ci sentiamo più tranquilli ad acquistare il modello intermedio da 110 €: dopotutto, non è l’alternativa più cara, e di sicuro sarà migliore del modello più economico, giusto?
4. Avversione alla perdita e zero-risk
Per la maggior parte delle persone evitare una perdita è una motivazione più forte rispetto a ottenere un guadagno; per questo nel marketing si utilizzano gli indicatori di scarsità che lasciano intendere che un certo prodotto o una certa offerta sono disponibili solo in modo limitato, e che quindi si rischia di perdere l’opportunità di averli: “ultimi 2 pezzi disponibili”, “l’offerta scade fra 30 minuti”, etc.
Il bias zero-risk (rischio zero) può essere considerato come un’estensione dell’avversione alla perdita e si tratta della tendenza a preferire le offerte che non comportano nessun tipo di rischio o conseguenza (per questo le formule “soddisfatti o rimborsati” o i periodi gratuiti di prova hanno successo).
5. Bias di ancoraggio
Le persone tendono a prendere decisioni basandosi sulle prime informazioni trovate in merito a un argomento; quindi se la prima volta che vediamo un prodotto il suo prezzo è 30 €, sentiremo di essere davanti a un affare se lo troviamo a 20 € e considereremo 35 € un prezzo troppo alto.
Nel mettere un prodotto in sconto, quindi, è utile lasciare vicino al prezzo scontato anche il prezzo originale per dare all’utente un’idea del vero valore del prodotto.
6. Pregiudizio dello status quo
Le persone tendono a preferire che le cose rimangano come sono; i cambi – anche se hanno come conseguenza un vantaggio – richiedono uno sforzo attivo e possono spaventare: cambiamo per andare verso qualcosa di ignoto mentre quello che già c’è è conosciuto e per questo non fa paura (anche se magari vorremmo qualcosa di meglio).
Questo bias si manifesta in tantissime situazioni (nelle relazioni personali, sul lavoro, etc.) ma, quando si tratta di acquisti, è quello che ci fa dire di no al nuovo operatore telefonico che ci offre prestazioni migliori e un prezzo inferiore rispetto all’operatore che abbiamo da anni.
Per cercare di aggirare questo bias è importante:
- non sommergere gli utenti di decisioni, anzi, meglio ridurre le alternative al minimo
- se nel corso del tempo è necessario apportare cambi bisogna fare in modo che gli utenti non debbano fare nulla (o il meno possibile) a riguardo
- non costringere gli utenti a un cambio, anche se a loro vantaggio
7. Bias dell’ingroup
In qualche modo tutti facciamo parte di un gruppo: per età, religione, posizione politica, condizione socioeconomica, provenienza geografica, etc.
Tendenzialmente preferiamo il nostro gruppo rispetto agli altri che vengono visti in maniera più o meno negativa (in alcune persone questa tendenza è più marcata, in altre decisamente meno).
E’ quindi utile rivolgersi ai nostri interlocutori come se facessimo parte del loro stesso gruppo: ad esempio dichiarando stessi valori, trattando argomenti di loro interesse, usando testimonianze o feedback di persone che vengono percepite come pari, etc.
8. Riprova sociale (effetto carrozzone o bandwagon)
Le persone tendono a ritenere più validi i comportamenti o le scelte effettuati da un gran numero di individui; ne avevamo parlato nel dettaglio in un post dedicato, con diversi esempi.
9. Salienza
La salienza è quando un oggetto (o un suo dettaglio) passa ad avere più importanza rispetto al contesto in cui si trovano e, di conseguenza, vengono subito identificati a livello visivo.
E’ come se, per strada, vedessimo una persona con i capelli rosa: cercando poi di richiamare alla mente il suo viso probabilmente ci ricorderemo bene i capelli, ma non i lineamenti.
In questo caso quindi è importante per un brand riuscire a costruire una presenza grafica che attraverso determinati dettagli (colore, logo, font, etc.) sia subito riconoscibile a livello visivo.
Due esempi eclatanti sono la Coca-Cola e il colore rosso ed e Apple con la mela.
Bias cognitivi ed etica
Non è sempre possibile sapere quando un bias cognitivo entrerà in azione e se, di conseguenza, condizionerà le decisioni degli utenti: tuttavia sapere che questi meccanismi esistono cercare di prevederli per sfruttarli a nostro vantaggio è già un passo avanti.
Tenere in considerazione i principali bias cognitivi nelle campagne di marketing non deve tradursi in un tentativo di prendersi gioco degli utenti sfruttando le loro debolezze come accade, invece, con le fake news sulle principali piattaforme social.
Queste notizie false, manipolate o solo parzialmente vere (ma tutte ugualmente pericolose) fanno appello ai bias cognitivi per diventare virali, raggiungere il maggior numero di persone e condizionare in qualche modo l’opinione pubblica, a vantaggio – di solito ma non necessariamente – di un’ideologia.
Sfruttare un bias cognitivo può essere utile per stimolare gli utenti a compiere una certa azione facendo leva su alcune necessità umane: sicurezza, appartenenza, identità, etc. ma l’obiettivo non è mai (o almeno, non dovrebbe essere) instillare paure, rabbia o insicurezza attraverso informazioni manipolate o solo parzialmente vere.
Inoltre, a meno che non si stia puntando ad acquisti “mordi e fuggi”, i bias cognitivi sono solo una piccola parte del rapporto fra gli utenti e un brand: è sempre necessario pensare alla relazione nel lungo termine, costruendo un valore crescente da parte di un marchio che deve avere una relazione il più possibile sana con il suo pubblico e con il mercato in generale.