B2B e B2C sono due acronimi abbastanza noti, non solo tra gli addetti ai lavori: il primo, che contraddistingue l’espressione “Business to Business”, viene utilizzato per indicare il commercio tra aziende; il secondo rappresenta invece la contrazione di “Business to Consumer”, equivalente alla nostra vendita al dettaglio.
Aziende che fanno affari con aziende da una parte, aziende che fanno affari con persone dall’altra, in un distinguo che ha visto negli anni stratificarsi regole e convenzioni.
E’ invece abbastanza recente la diffusione di un altro acronimo, B2P, che pone l’accento su un aspetto che accomuna le due tipologie di commercio: letteralmente “Business to Person”, evidenzia come in entrambe le relazioni si ha a che fare con delle persone in carne e ossa, con le loro convinzioni, idiosincrasie, preferenze e tutto quanto le contraddistingue come individui.
E’ un cambio di prospettiva importante, destinato sia a testimoniare che a influenzare un trend in atto molto significativo, che vede le persone sempre più consapevoli, attente e desiderose di esperienze di qualità.
Pensiamoci: 100 anni fa la popolazione era molto meno scolarizzata e più facilmente influenzabile. “Bevi Coca Cola, deliziosa e rinfrescante, ti dà sollievo dalla stanchezza” è un messaggio che ha accompagnato intere generazioni, che hanno decretato il successo mondiale di questa azienda, ancora oggi detentrice di uno dei marchi più noti al mondo.
Seguire delle indicazioni chiare, sia che venissero da delle aziende sia che venissero da quell’entità nota come Patria, era talmente radicato e naturale che era facile arrivare a degli estremi.
Pensiamo alle migliaia di persone che, ondata dopo ondata, hanno dato la vita nello sbarco in Normandia; è un estremo, ma ci fa ben comprendere la forza della persuasione su persone con un grado di scolarizzazione mediamente molto più basso di quello odierno. Riusciamo ad immaginarci oggi un sacrificio simile, da parte di migliaia di persone laureate in questa o quella università? Possibile, sì, ma decisamente più difficile.
Questo radicale cambiamento non può non riflettersi anche nella relazione che i singoli hanno con le proposte commerciali che arrivano dal mercato. Pensando ad un pubblico maschile, “Fuma queste sigarette, tutte le donne ti cadranno ai piedi” è un messaggio che trova ancora spazio? Forse in chiave ironica, ma decisamente non con intenzioni serie. Eppure era la norma poco più di 50 anni fa.
Cos’è cambiato? Grazie a una crescente scolarizzazione, si sono fatte più evidenti le regole del gioco: certe “leve psicologiche” hanno meno presa su un pubblico che comprende meglio le dinamiche della vendita. “Cambieresti il tuo fustino di detersivo con questi due?” poteva avere una risposta scontata qualche decennio fa, ma oggi?
Oggi i destinatari di quel prodotto vanno su internet, dove magari leggono un report di Altroconsumo, per poi finire in un forum dove – sempre per ipotesi – si parla delle pratiche di greenwashing della multinazionale che sta dietro a quel marchio (e magari neanche la metà di quello che c’è scritto corrisponde al vero ma è lì, fruibile in pochi istanti).
E’ tutto a “distanza zero”, non serve neanche – come fino a qualche anno fa – andare al computer: sono sull’autobus per andare al lavoro, vedo un cartellone pubblicitario di sfuggita e in pochi istanti con il mio smartphone posso già cercare informazioni, trovando di tutto e di più.
Roba da ricchi? Il fattore economico non sembra più una barriera: uno smartphone base costa attorno ai 50 euro e un piano solo dati “qualche euro” al mese, variabile a seconda delle compagnie telefoniche; per rendersi conto del tasso di diffusione di questo accesso a internet in mobilità, basta fare un giro in metropolitana all’ora di punta.
Torniamo a noi: se da un lato le persone fanno molta meno fatica ad informarsi, dall’altro hanno sempre più voglia di “acquistare bene”, un’espressione che non significa solo risparmiare, ma anche trovare corrispondenza tra la propria identità valoriale e l’azienda che sta dietro al prodotto, oltre che il prodotto stesso.
Già, perché la sensibilità è cambiata negli anni e spesso non si acquista più un detersivo solo perchè “pulisce meglio e/o costa meno”, ma anche perché è più ecologico di altri, per essere in qualche modo più rispettosi dell’ambiente anche attraverso le proprie scelte d’acquisto.
Ecco un passaggio importante: in una società che ha in generale superato di gran lunga la capacità di soddisfare i bisogni primari, le relazioni con beni e servizi assumono un’altra prospettiva, un ruolo che spesso trascende quello naturale per divenire uno strumento di identificazione.
In questo senso, anche la “scelta in negativo” è significativa. Ad esempio, vivo in una grande città e, pur avendone le possibilità, scelgo di non avere l’auto e di utilizzare per i miei spostamenti i mezzi o servizi di car-sharing: anche questo mi definisce.
Cibo, vestiti, intrattenimento, nulla è immune: un membro di un’importante famiglia il cui cognome è sinonimo di pasta fa una dichiarazione sull’argomento famiglia? Lo stilista di un’importante casa di moda ha preso posizione sulle adozioni? Il cantante famoso fa una dichiarazione infelice sulle fattezze tipiche delle ragazze di una certa area geografica?
Questi eventi possono influenzare in maniera radicale il rapporto con i beni di quella marca o con la produzione di quel musicista, indipendentemente dalle qualità intrinseche del prodotto.
Le stesse dinamiche che rendono così influenti questi eventi, tipicamente in negativo, consentono alle aziende di costruire relazioni di grande valore con le persone con cui entrano in contatto.
Il perché dell’importanza nella società moderna di queste relazioni per le aziende è presto detto: sono a tutti gli effetti moneta sonante, sono quello che consente a un’azienda di vendere un prodotto a un prezzo 10, magari con un costo di produzione 4, quando il concorrente che ha lo stesso costo di produzione e medesima qualità intrinseca fa fatica a vendere il suo prodotto a un prezzo 5.
Sono quello che consente di essere nel “top of mind” (la rosa dei marchi che vengono subito in mente, tipicamente al massimo 3) delle persone quando si pensa a un prodotto di quella categoria. Presto, pensiamo ad una marca di energy drink: la prima che viene in mente è quella che “ti mette le ali”, vero?
Ma per arrivare a questo risultato non è bastato uno slogan “martellante”: l’investimento incessante negli anni di Red Bull è stato nella creazione e nel rafforzamento di una precisa identità del marchio, anche attraverso la creazione e sponsorizzazione di esperienze estreme (come il salto di Felix Baumgartner) ed eventi sociali “frivoli ma coinvolgenti”, come la Red Bull Soapbox Race).
A leggere di Coca Cola, Red Bull ed altri grandi marchi magari a qualcuno viene da pensare “Facile, quelli sono dei grandi brand con budget enormi, sono capace anche io con quei soldi di fare una squadra di Formula 1 o organizzare gare estreme, ma a me che ho una piccola impresa, cosa ne viene di tutto questo?”
Ne viene che anche le piccole aziende possono impegnarsi per conoscere meglio i propri clienti (esistenti e potenziali) e soprattutto per stabilire un dialogo con loro che non sia fatto solo di prodotti o servizi in cambio di soldi ma anche di obiettivi comuni, valori condivisi, percorsi da compiere insieme.
Internet, in questo processo, è un grandissimo alleato delle aziende più piccole, in quanto ha ridotto in maniera drastica i costi di contatto: se pensiamo che oggi chiunque può fare una diretta audiovideo su Facebook raggiungendo potenzialmente milioni di persone sostenendo dei costi trascurabili (basta un cellulare ed una connessione ad internet), diventa facile comprendere come certe barriere all’ingresso del passato non possono più essere usate come scusa per non conversare con i propri interlocutori più importanti.
Sempre grazie a internet, le tante piccole e grandi scelte aziendali possono venire condivise facilmente, aiutandoci a costruire la nostra identità digitale: blog aziendali, social network, sistemi di invio newsletter sono solo alcune delle tantissime risorse che ci possono aiutare a stabilire conversazioni di valore dentro e fuori l’azienda, ma ci deve essere la volontà di farlo dedicandoci le giuste energie.
Acquisita questa consapevolezza, possiamo iniziare un percorso davvero interessante, capace di regalarci grandi soddisfazioni.
Non sono concetti nuovi, anzi: correva il 1999, ed il Cluetrain Manifesto, tradotto dalla bravissima Luisa Carrada (anima del sito mestierediscrivere.com), iniziava così:
- I mercati sono conversazioni.
- I mercati sono fatti di esseri umani, non di segmenti demografici.
- Le conversazioni tra esseri umani suonano umane. E si svolgono con voce umana.
- Sia che fornisca informazioni, opinioni, scenari, argomenti contro o divertenti digressioni, la voce umana è sostanzialmente aperta, naturale, non artificiosa.
- Le persone si riconoscono l’un l’altra come tali dal suono di questa voce.
- Internet permette delle conversazioni tra esseri umani che erano semplicemente impossibili nell’era dei mass media.
- Gli iperlink sovvertono la gerarchia.
- Sia nei mercati interconnessi che tra i dipendenti delle aziende intraconnessi, le persone si parlano in un nuovo modo. Molto più efficace.
- Queste conversazioni in rete stanno facendo nascere nuove forme di organizzazione sociale e un nuovo scambio della conoscenza.
- Il risultato è che i mercati stanno diventando più intelligenti, più informati, più organizzati. Partecipare a un mercato in rete cambia profondamente le persone.
- Le persone nei mercati in rete sono riuscite a capire che possono ottenere informazioni e sostegno più tra di loro, che da chi vende. Lo stesso vale per la retorica aziendale circa il valore aggiunto ai loro prodotti di base.
- Non ci sono segreti. Il mercato online conosce i prodotti meglio delle aziende che li fanno. E se una cosa è buona o cattiva, comunque lo dicono a tutti.
- Ciò che accade ai mercati accade anche a chi lavora nelle aziende. L’entità metafisica chiamata “L’Azienda” è la sola cosa che li divide.