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Smart(er) working con gli OKR: obiettivi e risultati chiave per lavorare meglio in sede e da remoto

Alberto Giacobone

Tempo di lettura: 10′

È quel momento dell’anno in cui si compie il rito: finiscono le vacanze estive, si torna al tran-tran quotidiano, chi studia torna in classe e chi lavora torna in ufficio… O forse no?

Forse qualcosa è cambiato o sta cambiando: il lavoro da remoto forzato dalla crisi pandemica ha permesso a molte persone di vivere un’esperienza lavorativa a cui non erano abituate e ora la centralità dell’ufficio come luogo di lavoro viene seriamente messa in discussione, soppesandone pro e contro, soprattutto quando andare e tornare dal luogo di lavoro richiede un’ora o più ogni giorno.

“La virtù sta nel mezzo” ci ricorda un vecchio adagio e molte persone puntano al “lavoro ibrido” (in inglese, che fa più internazionale, “Hybrid Work”), un po’ in ufficio e un po’ da remoto.

A posto così? Non proprio: le sfide per un’organizzazione che adotta modelli di questo tipo sono molteplici; si moltiplicano gli sforzi sul fronte della sicurezza, vanno gestiti picchi di accesso e momenti in cui gli uffici restano sostanzialmente vuoti e, aspetto non certo di secondo piano, si devono mettere in atto strategie atte a prevenire discriminazioni nei riguardi di chi sceglie di lavorare maggiormente da remoto.

Il problema è, in primis, culturale.

Se le decisioni (importanti o meno che siano) vengono prese in base all’estro del momento in una chiacchiera alla macchinetta del caffè, non esserci diventa un chiaro ostacolo al proprio percorso professionale.

Inoltre, se la valutazione dei risultati viene fatta sulla base delle ore trascorse in ufficio sotto gli occhi di questa o quella persona responsabile, lavorare da remoto diventa inevitabilmente un handicap.

Un altro aspetto è quello legale.

Il lavoro subordinato è ingessato in una serie di regole stratificate negli anni sulla base di modelli risalenti al passato: qualcosa sta cambiando, come nel caso della più che lodevole sperimentazione del FOR Working nel settore chimico ma, appunto, siamo ancora alla sperimentazione.

Infine, tra le questioni più rilevanti, c’è quella tecnologica.

Pensiamo ad esempio alle riunioni, in contesti dove non ci si è dotati delle giuste risorse: tra voce che si sente male, presenti che si scambiano documenti cartacei non accessibili a chi è in remoto e altri ostacoli simili, difficoltà di lavorare insieme e fastidio crescono di pari passo.

Ancora, in tante realtà la possibilità di lavorare da remoto viene negata perché “bisogna rispondere al telefono” e ovviamente l’azienda non ha colto le tante novità che permettono di creare centralini virtuali che consentono di rispondere da qualsiasi parte ci si trovi del mondo e oltre.

Superare tutti questi ostacoli è più che possibile e consente di ottenere più di un vantaggio competitivo sulle imprese che non affrontano con la dovuta attenzione gli importanti cambiamenti in corso.

Una delle risorse che ci permette di farlo ci chiede di tornare alle basi e ragionare sull’impresa partendo dalla sua definizione di “organizzazione di beni e capitale umano” finalizzata a raggiungere una specifica missione.

Sono poche le imprese che hanno esplicitato in maniera chiara la propria missione, ma statisticamente quelle che lo fanno sono quelle di maggiore successo: sanno dove vogliono arrivare e hanno compreso che il proprio compito è quello di aiutare le persone che lavorano per e con loro a perseguire quell’obiettivo.

Partendo dalla missione, l’obiettivo principe, l’organizzazione può dotarsi di un metodo per gestire le tappe intermedie, quelle che, raggiunte una dopo l’altra, permettono di avvicinarsi o arrivare al risultato finale.

Uno di questi metodi si chiama OKR (Objectives & Key Results), è nato nella Silicon Valley degli anni ‘70 (ma ha radici ancora più lontane) e può benissimo accompagnare tante aziende, anche italiane, in questo periodo di importanti cambiamenti.

Scopriamolo insieme!

OKR, un po’ di storia

Le radici della metodologia OKR affondano nel “Management by Objectives” (MBO), detto anche “Management by Planning” (MBP) proposto da Peter Drucker nel suo saggio del 1954 “The Practice of Management”, in cui ha razionalizzato alcune teorie già circolanti.

Si tratta di un metodo “top down”, dove (sommariamente) vengono definiti a cascata – quindi dall’alto verso il basso – degli obiettivi da raggiungere e dei premi per il loro raggiungimento.

Sintetizzando, le fasi principali sono:

  1. verificare gli obiettivi dell’organizzazione
  2. esplicitare gli obiettivi del lavoratore
  3. tenere sotto controllo i risultati
  4. valutare quanto ottenuto
  5. riconoscere un premio o meno in base ai risultati ottenuti

Questa metodologia ha spopolato in società come Hewlett-Packard (HP), Xerox, DuPont e anche Intel.

Di suo, era una piccola rivoluzione: le persone non venivano valutate in base ad affiliazioni, risultati accademici, genere o altro, ma in base agli effettivi risultati raggiunti.

Pur con i limiti legati alle singole persone e i loro possibili pregiudizi, questo metodo ha valorizzato molto potenziale umano e consentito a persone capaci di progredire nella carriera e nel valore portato all’azienda.

In Intel l’alfiere dell’MBO era Andy Grove, l’allora CEO, che ha però introdotto una propria interpretazione di questo metodo, con delle piccole ma importanti modifiche, tali da far meritare al sistema un nuovo nome: OKR.

È proprio in Intel che un certo John Doerr ha imparato questa metodologia, per poi avere l’occasione di applicarla in una piccola startup in cui si è trovato a fare da consigliere: quella piccola startup si chiamava Google e parte del suo successo viene attribuito proprio a questo metodo, adottato poi da tantissime altre realtà nella Silicon Valley (da aziende come LinkedIn, Twitter, Airbnb e molte altre) e oltre (e.g. da Spotify, ING Bank, The Guardian, Target, Walmart e altre, di cui alcune anche in Italia).

Per capire le differenze tra MBO e OKR, addentriamoci nella specificità di questo metodo partendo dagli obiettivi (Objectives).

O come Obiettivi: qual è la nostra meta?

Where do I want to go?” era la prima delle due domande con cui Andy Grove spiegava gli OKR e per quanto appaia scontata, spesso così non è. Dove voglio andare?

La meta così come intesa negli OKR deve essere ben definita e può essere “aspirazionale” (“moonshot”) oppure ambiziosa ma credibilmente raggiungibile (“roofshot”).

Un “moonshot” (termine in uso soprattutto in Google) è un obiettivo molto alto, una sfida così complessa che non si sa se può essere vinta o meno, ma questo non impedisce di provarci: un ottimo esempio è stato appunto il tentativo – riuscito – di sbarcare sulla Luna nel 1969, un’impresa davvero incredibile considerando la tecnologia e le risorse dell’epoca.

Fotografare tutte le strade del mondo – oggi realtà grazie al servizio Google Street View – è stato un “moonshot” di Google, un’impresa incredibilmente complessa che non si sapeva bene se sarebbe riuscita o meno.

Un “roofshot” invece è un obiettivo che punta al “tetto”, qualcosa di alto ma definito, raggiungibile e probabilmente già raggiunto in passato da altri.

Costruire ad esempio un ponte stradale o ferroviario con tecnologie note, nel rispetto di limiti adeguati (di tempo e risorse), è una sfida complessa ma del cui esito si può ragionevolmente avere maggiore certezza.

I limiti di tempo sono una parte integrante degli obiettivi OKR: senza un orizzonte temporale ben definito gli obiettivi perdono gran parte della loro capacità di motivare le persone e soprattutto impediscono lo sviluppo di progettualità complesse, dove la disponibilità di questa o quella risorsa nei tempi previsti è fondamentale per il buon esito del progetto.

Un’altra caratteristica degli obiettivi nel metodo OKR è la loro trasparenza: ogni obiettivo, dal più piccolo a quello principe, è accessibile a tutte le persone impegnate nell’impresa. Questo aspetto è fondamentale, in quanto consente a tutte le persone di comprendere il proprio ruolo nell’insieme.

Infine, non meno importante, in quella che forse è la difformità principale rispetto al classico MBO, ogni obiettivo è condiviso e possibilmente cogenerato, un processo che pone rimedio ad uno dei difetti principali del metodo MBO.

Gli obiettivi della singola persona, del singolo team, del singolo dipartimento, non sono imposti dall’alto ma costruiti insieme alla persona o le persone che dovranno impegnarsi per realizzarli, attraverso momenti di confronto che fanno sì che i traguardi non siano vissuti come “imposizioni” ma scelte condivise da portare avanti con convinzione e dedizione.

La definizione degli obiettivi è chiaramente un momento delicato che richiede le giuste competenze – anche tecniche – a tutte le parti coinvolte e un aspetto particolarmente importante – che anticipiamo brevemente – è che per consentire al metodo OKR di esprimere il massimo del suo valore eventuali premi non devono essere correlati al raggiungimento o meno dell’obiettivo.

Può sembrare controintuitivo, ma presto vedremo i motivi per cui è meglio così.

KR come Key Results, risultati chiave: come capiamo che ci stiamo avvicinando all’obiettivo?

I risultati chiave sono uno dei punti di maggior valore del metodo OKR: sono un insieme di situazioni (tipicamente dalle 3 alle 5 per obiettivo) misurabili, che al loro avverarsi permettono di stabilire il raggiungimento o meno dell’obiettivo.

Se ad esempio l’obiettivo è “Comprendere e migliorare la soddisfazione dei clienti entro il prossimo trimestre”, i KR potrebbero essere:

  1. elaborare un sondaggio e somministrarlo a 100 clienti
  2. ottenere un NPS (Net Promoter Score) superiore a 8 dai nuovi clienti
  3. assegnare un referente personale ad ogni cliente (con massimo 50 clienti per referente)

L’esempio evidenzia come i risultati chiave vadano oltre i KPI (Key Performance Indicator), pur potendoli includere, come nel caso del secondo KR: il primo KR indicato è invece un lavoro da svolgere, che a sua volta comporterà una serie di attività, e si potrà misurare il suo esito in base al numero di sondaggi somministrati.

Nel KR non viene detto nulla sulla qualità del sondaggio e le domande che deve contenere, ma la trasparenza dell’obiettivo fa sì che la persona che lo va ad elaborare sia ben cosciente del motivo per cui lo sta facendo e farà – salvo motivazioni personali disallineate da quelle dell’impresa – del proprio meglio per realizzare un sondaggio utile.

OKR quindi non è uno strumento di micro-management, ma un metodo che consente a tutte le persone coinvolte nell’impresa di allinearsi sugli obiettivi e puntare a raggiungerli insieme.

Nel definire i KR tipicamente si attribuisce un peso a ciascuno, in modo da calcolare in maniera il più possibile corretta l’effettivo raggiungimento dell’obiettivo o di quanto manca per farlo. Ricordandoci la differenza tra obiettivi aspirazionali e non, a volte anche solo arrivare al 70% di un obiettivo è già un importante risultato che contribuisce al progredire dell’impresa.

Va sottolineato come anche la definizione dei KR debba essere il più possibile condivisa, in un processo partecipativo che permette di cercare la combinazione più adeguata al contesto e alle persone coinvolte (non per forza la migliore).

OKR come processo: un anno di OKR in azienda

Il ciclo degli OKR per convenzione parte giusto prima dell’inizio dell’anno con un brainstorming teso a definire gli obiettivi dei vari orizzonti temporali: da quelli di più lungo termine (in alcuni casi anche triennali o quinquennali) a quelli annuali per arrivare a quelli del trimestre, un lasso di tempo tipico non solo per questa metodologia.

Nulla vieta di far partire l’anno ad esempio a settembre o ancora, di ragionare per quadrimestri o singoli mesi, ma il tempo dedicato all’organizzazione va bilanciato con il tempo dedicato all’operatività.

Tenendo il trimestre come orizzonte temporale, pochi giorni dopo l’inizio del trimestre vengono valutati gli esiti del trimestre precedente mentre verso la fine vengono definiti gli obiettivi di quello successivo, e così via.

I momenti di allineamento di inizio e fine mese sono vere e proprie riunioni, con un’apposita struttura. Richiedono un tempo variabile che si riduce con l’esperienza dei partecipanti: a regime può essere anche inferiore a un’ora a incontro.

Nell’arco del trimestre sono poi utili incontri di allineamento anche molto brevi (15 / 20 minuti), con frequenza settimanale o bisettimanale.

Oltre ai momenti di confronto con le persone più vicine, è importante tenere tutta l’impresa allineata sull’andamento generale, con dei momenti di confronto che in alcune imprese si impostano mensilmente mentre in altre su periodi più lunghi.

In questo modo, soprattutto nelle aziende più grandi e strutturate, tutte le persone che collaborano all’impresa hanno modo di capire meglio a che punto si è del percorso verso l’obiettivo principe.

OKR e Obiettivi S.M.A.R.T., quali differenze?

Capita spesso di incrociare l’acronimo SMART, usato a volte in compagnia di Obiettivi e a volte di Goal. Si tratta di un ausilio mnemonico (il cui primo impiego di cui si ha traccia risale al 1981 da parte di George T. Duran) per descrivere le caratteristiche che dovrebbe avere ogni obiettivo (o goal, a seconda delle versioni):

Specific (Specifico)
Measurable (Misurabile)
Assignable (Attribuibile)
Realistic (Realistico)
Time-related (con un preciso orizzonte temporale)

Nota doverosa: in alcune versioni di questo acronimo troveremo Achievable (Ottenibile) al posto di Assignable e Relevant (Rilevante) al posto di Realistic, così come negli anni sono usciti altri acronimi simili (SMARTER, etc.)

In tutti i casi l’intento è di aiutare chi di dovere a definire degli obiettivi che abbiano delle caratteristiche che li rendano utili al percorso dell’impresa.

Siamo però lontani dal valore d’insieme del metodo OKR, che aiuta un’intera impresa ad allinearsi su obiettivi condivisi, spesso co-costruiti insieme agli stessi risultati chiave utili per il loro raggiungimento, in un processo d’insieme sufficientemente leggero che permette all’impresa di procedere in maniera consapevole.

SMART quindi, in una delle sue declinazioni, è un acronimo che può aiutarci in fase di definizione dell’obiettivo: possiamo scegliere quale utilizzare e integrarlo nelle nostre pratiche.

OKR: quando non funziona?

A leggere articoli o libri in cui si scrive di OKR (a proposito, uno dei punti di riferimento è proprio di John Doerr, con il libro “Measure What Matters“) sembra di essere di fronte al Sacro Graal delle metodologie organizzative, ma allora perché non è (ancora) uno standard diffuso?

Il primo motivo è la maturità professionale richiesta da parte dell’organizzazione e delle persone coinvolte: il metodo per funzionare richiede molta disciplina e, per quanto possa sembrare paradossale alle persone che non si sono avvicinate al mondo del lavoro, in tante imprese la realtà quotidiana non è così strutturata.

Ci deve essere anche una volontà collettiva di implementare questa metodologia, con una determinazione tale capace di aiutare l’impresa a superare le difficoltà iniziali.

Si tratta di un metodo abbastanza leggero che viene declinato in ogni azienda in base alle sue peculiarità: i rischi di rigetto, soprattutto all’inizio, sono molto alti, così come sono alti i rischi di distorsione, che ne snaturano l’entità e fanno perdere il valore della sua pseudo-adozione.

Ad esempio: in assenza di trasparenza ed allineamento, il metodo OKR fatica ad aiutare veramente l’impresa e grandi difficoltà emergono anche se si salta la fase di revisione, un momento importantissimo di questa metodologia.

Ancora: mettere tra gli obiettivi delle situazioni che sono BAU (Business as Usual) e trasformare i Key Result in un elenco di attività sono degli altri modi sicuri per far perdere il valore dell’adozione del metodo OKR in azienda.

Infine affrontiamo un tema già accennato: la tentazione di sovrapporre OKR e una revisione delle performance, finalizzata all’erogazione di premi.

OKR e revisione delle performance: perché tenerli separati

Ora che abbiamo visto insieme le caratteristiche del metodo OKR è più facile capire il rischio di questa sovrapposizione: se i premi sono correlati al raggiungimento degli obiettivi, in fase di negoziazione di obiettivi e risultati chiave la tentazione di ridurne la portata (e quindi il relativo impegno) si fa più alta. Perché somministrare 100 sondaggi deve essere un KR? Troppo alto, facciamo 50… e così via.

Inoltre cresce il rischio di incentivare comportamenti individualistici, dove fare il proprio (ed ottenere il premio) conta più del risultato d’insieme, con dinamiche che sottraggono energie alle persone, rischiano di diventare motivo di malcontento e introducono inefficienze per l’organizzazione.

Una separazione sia sul momento della revisione delle performance (facendolo slittare ad esempio di un mese rispetto alla chiusura del trimestre OKR) sia sui fattori oggetto di valutazione aiuterà le persone a prendere impegni equilibrati e perseguirli con le giuste energie.

Le risorse per gestire il processo: dalla carta alle app dedicate

Per portare il metodo OKR in azienda l’investimento più importante è quello culturale: assicurarsi che ci siano le giuste condizioni per dare una chance a questo metodo di funzionare e continuare a sceglierlo negli anni vale più di qualsiasi software dedicato.

A supporto di questo processo ci sono imprese che possono trovarsi bene già partendo da fogli elettronici condivisi appositamente strutturati, ma esistono metodi più efficienti.

Si possono ad esempio usare dei modelli nel contesto di strumenti di gestione delle attività collaborativi come Asana:

Oppure ancora Monday:

Esempi simili si possono ritrovare per i principali applicativi di questa categoria.

Ci sono poi risorse specifiche come Weekdone:

 

o ancora betterworks:

Una risorsa che resta particolarmente apprezzabile per chi si sta avvicinando a questa metodologia è il sito orkexamples.co, che offre un ricco elenco di esempi e anche degli strumenti (automatici, da prendere con le pinze) per valutare la leggibilità e l’adeguatezza di O e KR.

Le testimonianze di AppQuality e Talent Garden

Gli esempi riportati da questo sito, che spaziano dalla contabilità all’amministrazione, dal customer service alle risorse umane, dal marketing allo sviluppo software, ci aiutano a comprendere come questa metodologia possa tornare utile a tutti i ruoli in azienda, nessuno escluso.

Questo punto è particolarmente importante considerando i tentativi fatti in alcune aziende di portare metodologie nate per lo sviluppo di software in contesti molto diversi, come ad esempio la gestione delle risorse umane: senza le dovute attenzioni questi tentativi si sono spesso rivelati fallimentari, lasciando in più di un caso una generale ritrosia verso questo tipo di risorse.

Così non è per il metodo OKR e lo vediamo con il racconto di Gianluca Peretti, Customer Success Team Leader & Senior Sales Manager in AppQuality, una promettente startup italiana di crowdtesting dal respiro sempre più internazionale.

Gianluca ci racconta così il percorso compiuto in azienda:

All’inizio del 2021 abbiamo deciso di mettere da parte le metriche standard di valutazione delle performance a favore degli OKR, già consapevoli che l’adozione non sarebbe stata per nulla semplice, nonostante le dimensioni relativamente modeste della nostra azienda (siamo circa in 50 persone). Eravamo consapevoli di dover dare fiducia al processo e che avremmo sicuramente dovuto correggere il tiro strada facendo, ma trasformare la consapevolezza nella pazienza e determinazione necessari giorno dopo giorno non sempre è facile.

Per definire gli obiettivi principali abbiamo utilizzato un approccio top down: il nostro Board ha definito quattro obiettivi che – giusto dirlo – nel corso di questi mesi sono stati leggermente rivisti per essere più rispondenti alle giuste caratteristiche degli Obiettivi della metodologia.
Per ogni obiettivo sono stati definiti 5 risultati chiave, a loro volta obiettivi per i diversi team presenti in azienda:

  • Sales
  • Customer Success
  • Crowd
  • Tech
  • Marketing
  • Amministrazione, finanza e controllo

Stabiliti gli obiettivi dei team in top down, abbiamo poi cambiato prospettiva per i rispettivi KR, coinvolgendo tutte le persone dei team in un approccio bottom up, sia per i KR collettivi che per quelli individuali.

Un punto fermo della nostra implementazione è la completa trasparenza: O e KR sono condivisi in una dashboard accessibile a tutte le persone e ogni fine trimestre effettuiamo un incontro di valutazione dei progressi fatti e di verifica della necessità di eventuali correttivi.

All’inizio non è stato per nulla semplice: il primo trimestre è stato in assoluto il più complesso, in quanto abbiamo disaccoppiato le metriche legate alle premialità da quelle degli OKR e questo ha creato più di una difficoltà. Poi con il tempo abbiamo iniziato ad ingranare e la sfida è diventata far sì che i KR dei team fossero sincronizzati tra loro, creando un unico fronte concentrato sugli obiettivi d’insieme e non 5 team in competizione tra loro. Ora siamo quasi al termine del terzo trimestre e siamo piuttosto confidenti che con il quarto trimestre saremo a regime, sostanzialmente in linea con le tempistiche di adozione tipiche riportate dai vari manuali di riferimento.

Che dire: quella che all’inizio poteva sembrare una sovrastruttura inadeguata sta diventando poco per volta un supporto leggero, una sorta di “esoscheletro” che aiuta l’azienda e le persone che ne fanno parte a muoversi nella stessa direzione.

Ci vuole un po’, ma i risultati arrivano!

AppQuality non è l’unica azienda italiana che conosciamo che già adotta questa metodologia: tra le altre, segnaliamo il caso di Talent Garden, realtà dalle molteplici sfaccettature che si sta distinguendo nel mondo con l’apertura di decine di spazi di coworking e una crescente offerta formativa.

A raccontarci – e la ringraziamo molto per aver trovato il tempo di farlo – l’implementazione degli OKR in azienda è Lorena Pérez, Chief People Officer dell’azienda:

La metodologia OKR è decisamente una di quelle che vale la pena implementare quando la tua impresa si trova in un ambiente in rapida evoluzione, come è il caso per noi in Talent Garden. Offre delle linee guida chiare per aiutare tutte le persone in azienda a indirizzare i propri sforzi e avvicinarsi alla “luna” 🙂
Altri vantaggi sono la facilità e velocità con cui consente di cambiare quando a cambiare sono le priorità di business.

I consigli di maggior rilievo che mi sento di condividere quando si decide di implementarla:

  • ottenere l’attenzione e l’impegno del top management per impostare gli OKR aziendali
  • coinvolgere i team nel creare i propri OKR
  • essere realistici nel considerare il tempo da dedicare alle attività di tutti i giorni (BAU, Business as Usual, NDR): troppo KR possono sovraccaricare i team se il carico del quotidiano è già alto. Credo che al massimo 3 / 4 goal (O) con 3 risultati chiave (KR) sia l’ideale.
  • quando possibile è ideale scegliere degli OKR di team che facilitano un ambiente più collaborativo (si possono comunque sempre comunque assegnare dei KR a persone differenti nel team).
  • tenere sempre sotto controllo i progressi, con regolarità (almeno una volta al mese), attraverso un momento di revisione che aiuta anche a capire se ci sono stati dei blocchi, in modo da supportare il team nel superarli.

Ultimo ma non per questo meno importante: assicurarsi che una buona performance sul fronte degli OKR abbia un effettivo impatto sulle performance aziendali 😉

Questi esempi virtuosi di due realtà impegnate in ambiti molto diversi tra loro ci aiuta a comprendere la flessibilità di un metodo così leggero, a tutti gli effetti un esoscheletro capace di dare energia e forma al naturale potenziale dell’impresa e delle sue persone nel viaggio verso l’obiettivo principe, quale che questo sia.

OKR e lavoro in sede, da remoto o ibrido: considerazioni

L’adozione del metodo OKR non è una bacchetta magica capace di cambiare le sorti di un’azienda, ma più di altri offre una risposta adeguata alle esigenze di imprese in cui le sedi perdono il ruolo di “luogo predominante dove viene svolto il lavoro” o che magari non hanno mai avuto una vera e propria sede o, ancora, che vi rinunciano.

La responsabilizzazione delle singole persone ed un’equa valorizzazione del loro contributo al percorso dell’impresa va nella direzione di creare esperienze lavorative di qualità, capaci di soddisfare i bisogni di persone che in molti casi sempre più cercano altro oltre al mero compenso economico, in un’evoluzione del mercato del lavoro che rischia di diventare costosissimo non riconoscere, soprattutto in termini di attrattività nei riguardi dei migliori talenti.

Ormai compreso e assodato che lo smart working non è la situazione emergenziale della crisi pandemica, cogliere questo momento di cambiamento per rafforzare la propria impresa anche con risorse come la metodologia OKR, indipendentemente dal luogo dove si svolge il lavoro, può essere davvero un’ottima idea.

Chiudiamo con un ulteriore spunto di lettura per chi vuole approfondire in autonomia l’argomento e scoprire altre esperienze:

si tratta del libro “OKR Performance, Centra gli obiettivi della tua organizzazione” di Francesco Frugiuele e Matteo Sola, che hanno già accumulato diverse esperienze in molte aziende italiane su questo fronte (tra cui anche la già citata Talent Garden).

A chi ha piacere, buona lettura!

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