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Comunicazione empatica e umanesimo come strumenti di crescita personale e aziendale: intervista con Girolamo Grammatico, life & business coach

Stella Fumagalli

Tempo di lettura: 8′

In Axura, di mestiere, aiutiamo le aziende a dialogare meglio con il mercato.

Questo si traduce in tante conversazioni, da quelle su prodotti e servizi a quelle sul proprio viaggio e la propria ragion d’essere, il proprio “ruolo nel mondo”, e molte altre.

Per poter condurre al meglio queste conversazioni è fondamentale “conoscersi” e darsi una forma, fatta anche di scelte, alcune più facili e altre meno: scegliere ad esempio la qualità dei propri prodotti, se pagare in maniera equa i propri dipendenti senza discriminazioni di genere e molte, moltissime altre.

Non sempre è facile compiere queste decisioni e in alcuni casi è utile avvalersi di professionist* capaci di aiutarci a fare luce su questo o quell’aspetto, mettendo un po’ d’ordine nei nostri pensieri e a costruire più consapevolmente il nostro percorso.

Uno di quest* professionist*, con cui abbiamo il piacere di confrontarci da diverso tempo, è Girolamo Grammatico, un life & business coach umanista che – attraverso il suo lavoro e la sua dedizione – ha contribuito in modo tangibile al viaggio di molte persone e imprese.

Negli ultimi anni abbiamo (fortunatamente) assistito ad una crescente sensibilità nei confronti dei temi legati alla salute mentale: in un mondo frenetico e spesso impersonale, la cura dell’individuo, delle sue emozioni e del suo benessere psicologico è diventata finalmente centrale.

Le aziende più sensibili e avvedute hanno da tempo (chi più chi meno) riconosciuto l’importanza di muoversi in questa direzione: investire in questi temi, infatti, non solo è un gesto etico e sociale, ma offre anche un concreto ritorno poiché crea l’ambiente giusto per una cultura aziendale positiva, nella quale le persone si sentono più serene e motivate.

L’intervista con Girolamo è un viaggio nel mondo della comunicazione empatica e nella profondità delle relazioni umane, capace di offrire ispirazione e riflessioni preziose per chiunque voglia rendere la propria azienda più umana e proprio per questo più competitiva.

Ciao Girolamo, e grazie mille per aver trovato il tempo per questa chiacchierata. Per cominciare ti chiediamo: come sei arrivato a fare il tuo mestiere?

Quando mi chiedono come sono diventato un life & business coach rispondo sempre evidenziando una particolare caratteristica che definisce il mio approccio: sono un umanista.

Questa definizione connota profondamente la mia professione perché quando lavoro, sia nelle aziende che nelle consulenze individuali, pongo l’essere umano al centro, lavorando sulle sue potenzialità intrinseche.

Prima di essere life & business coach ho dedicato 17 anni a lavorare con e per le persone senza dimora, un’esperienza che mi ha cambiato la vita; ma con l’arrivo dei miei bambini le cose sono cambiate: la comunità in cui operavo mi richiedeva di dormire sul posto, rendendo difficile per me conciliare la vita familiare con il lavoro. Inoltre l’Italia non sempre riconosce l’importanza di questi ruoli, rendendoli talvolta sottopagati o poco considerati.

Un episodio in particolare ha cambiato la mia prospettiva: una sera, rientrando a casa, ho visto mia figlia Gaia camminare, cosa che fino alla sera prima non era capace di fare. Mi ero perso i suoi primi passi. Questo episodio ha acceso in me una riflessione sulla necessità di bilanciare meglio lavoro e vita familiare.

Proprio in quel periodo poi mi ero iscritto alla Scuola Umanistica di Roma, mosso da una passione personale e da un desiderio di crescita interiore: dalla congiunzione di questi eventi ho deciso di aprire un’attività come coach e nel 2016 ho lasciato il mio precedente lavoro e inaugurato il mio studio.

Siccome durante i nove mesi della prima gravidanza di mia moglie ho letto tantissimi libri sulla paternità e sull’attaccamento sicuro, ero diventato una sorta di riferimento per i miei amici su questi temi: quando ho annunciato il mio nuovo percorso professionale, i primi a cercarmi sono stati alcuni di questi amici, papà in difficoltà. Il passaparola poi ha fatto il resto.

Due anni dopo ho deciso di racchiudere tutte le mie esperienze, gli appunti e i materiali raccolti in un libro, #esserepadrioggi: Manifesto del papà imperfetto, un volume che racconta il mio lavoro e le mie sessioni con i papà, pubblicato con l’aiuto di un editore romano.

Durante il periodo del COVID molte persone hanno riscoperto l’importanza della dimensione familiare. Questo si manifesta, ad esempio, nella crescente preferenza per le aziende che offrono la possibilità di lavorare da casa. Hai riscontrato questo cambiamento nelle tue consulenze?

Decisamente. L’epoca del COVID è stato un periodo di lavoro davvero intenso per me, ho fatto tantissime consulenze online a moltissimi papà.

Molti di loro hanno trovato un nuovo equilibrio in una realtà familiare rinnovata e non desiderano tornare alla “normalità” precedente; questo periodo ha anche illuminato l’importanza delle relazioni autentiche nella nostra vita.

Noi esseri umani siamo fondamentalmente relazionali, e ciò che conta non è la quantità, ma la qualità e reciprocità delle relazioni che costruiamo: l’immersione in innumerevoli relazioni diventa futile se non vi è una vera reciprocità.

Alcune persone hanno realizzato quanto le loro relazioni si siano rafforzate durante questo periodo, rendendoli riluttanti a perdere quel legame speciale: dopo tutto, il rapporto con un figlio cambia ad ogni età, il legame che hai con un bambino di cinque anni è diverso da quello con uno di sei anni e sicuramente non può essere replicato quando ha vent’anni.

Perché non lavori anche con le mamme, oltre che con i papà?

Questa domanda ha un risvolto interessante: se avessi scelto di focalizzarmi sulle mamme come target, probabilmente avrei avuto un volume di lavoro cinque volte superiore!

Ho osservato che le mamme, per una serie di ragioni culturali e legate al welfare, sono generalmente più abituate a trascorrere tempo con i loro figli e sono molto orientate al problem solving, sono sempre alla ricerca di risorse e strumenti che possano aiutarle nella gestione della famiglia.

Al contrario, alcuni padri sembrano meno predisposti a questo tipo di impegno; ricordo un workshop in cui un papà, portato da un amico, si alzò e se ne andò dopo poco tempo.

L’amico stesso era stato “spedito” dalla moglie con la raccomandazione di partecipare al workshop per il suo bene, ma quando si trattò di riflettere in modo approfondito sulla paternità, l’amico si sentì sopraffatto.

Aveva sottovalutato l’impegno richiesto e, a sua volta, mi confidò che avrebbe preferito semplicemente “andare a bere qualcosa” piuttosto che affrontare un intenso lavoro di introspezione.

Questo contrasta con la mia esperienza con le mamme: nei gruppi dedicati ai genitori ho notato che spesso il tempo a disposizione non era sufficiente e che avrebbero voluto ancora più spazio per discutere e riflettere, c’era una vera e propria “fame” di condivisione e approfondimento.

Tuttavia, ho scelto di dedicarmi ai padri perché sento che sia la mia missione. Voglio aiutare i padri a riscoprire e potenziare il loro ruolo all’interno della famiglia.

Tu lavori con i privati ma fai anche consulenze in azienda: che diversità riscontri?

Lavorare con le aziende richiede un approccio diverso rispetto al lavoro con i privati, poiché si tratta di affrontare dinamiche complesse legate a team, reparti e diverse gerarchie organizzative.

Un esempio emblematico è il mio recente percorso con l’azienda Evermind : anche se avevano adottato lo smart working da undici anni, essendo pionieri in questo campo con dipendenti sparsi in città come New York, Londra, Berlino e persino in Calabria, hanno riconosciuto la necessità di affrontare alcune sfide di comunicazione.

Infatti, mentre la maggior parte delle interazioni interna era fluida, avevano notato che quando sorgevano conflitti la comunicazione tendeva a interrompersi: per rispondere a questa sfida, mi hanno chiesto di guidarli in un percorso sulla “comunicazione empatica”.

Tuttavia, piuttosto che organizzare sessioni isolate o “momenti spot”, ho suggerito un impegno più prolungato: un percorso di formazione di un anno. Questa scelta si basava sulla convinzione che per instaurare una vera trasformazione della comunicazione sia necessario tempo, pratica e impegno costante.

In generale, quando collaboro con aziende, mi trovo ad organizzare e condurre molteplici incontri, ognuno dei quali mirato a indirizzare specifiche esigenze e sfide di comunicazione interne.

Quali sono i tuoi filoni principali di lavoro e qual è, a grandi linee, il tuo approccio?

Le mie principali aree di intervento si dividono in quattro filoni:

  1. Genitorialità per i papà: qui metto al centro l’importanza della figura paterna e del suo ruolo nel contesto familiare. Lavoro affinché i padri possano vivere appieno il loro ruolo, costruendo relazioni significative con i propri figli e investendo nel loro benessere emotivo.
  2. Comunicazione empatica: si tratta di insegnare alle persone come ascoltare e comunicare in modo profondo e sincero, ponendo le basi per relazioni autentiche e rispettose.
  3. Storytelling e “narrazione del sé”: qui utilizzo la scrittura come strumento di esplorazione di sé. Con esercizi di narrazione, guido le persone verso una maggiore consapevolezza sia nel contesto della comunicazione empatica sia nella genitorialità. Gli esercizi di scrittura collettiva, spesso intergenerazionali, sono un modo per permettere alle persone di esprimersi e condividere le proprie storie in un ambiente sicuro.
  4. Consenso sistemico: questo è un filone meno predominante, ma ugualmente fondamentale. Si focalizza su metodi di decisione collettiva che tengono conto della fragilità e delle diverse esigenze dei partecipanti.

Sebbene questi metodi possano sembrare più lenti inizialmente, nel lungo termine offrono una maggiore efficienza e coesione di gruppo. Il principio guida è la ricerca del “sì” dietro al “no”, esplorando i bisogni nascosti dietro ai conflitti: credo fermamente che ogni conflitto nasconda un bisogno inespresso e che, individuandolo e ascoltandolo, si possano trovare soluzioni armoniose e durature.

Il mio obiettivo, attraverso questi filoni, è sempre quello di avvicinare le persone a una maggiore consapevolezza e comprensione reciproca, creando legami profondi e duraturi.

Sappiamo che hai proposto un corso sulla responsabilità paterna: di cosa si tratta?

Durante l’estate mi sono confrontato con una serie di drammatiche notizie: un femminicidio al giorno, stupri, incendi dolosi… un allarmismo costante. Tornando a Roma, ho deciso che qualcosa doveva cambiare.

Dopo aver esaminato dati statistici su questioni come la dispersione scolastica, i femminicidi e i problemi psichiatrici tra gli adolescenti, ho proposto un corso focalizzato sulla responsabilità paterna: questo perché un padre può non solo essere una figura non colpevole, ma anche responsabile e promotore di cambiamento.

Ho identificato tre fasi chiave della paternità: “essere padre”, “sentirsi padre” e “diventare padre”: la paternità è un concetto dinamico, che evolve con la crescita dei figli, e l’intenzione di “essere padre” è un aspetto fondamentale.

Il corso mira a promuovere la consapevolezza e la riflessione: coloro che hanno partecipato a percorsi simili, secondo alcune testimonianze, sembrano avere una maggiore consapevolezza e una propensione all’ascolto, beneficiando non solo a livello personale e familiare ma anche professionale.

Le aziende che investono in questi programmi vedono un ritorno positivo in termini di benessere dei loro dipendenti e di efficienza lavorativa. Con l’azienda con cui ho lavorato per un anno ho stabilito come condizione che anche la leadership partecipasse, perché la comunicazione empatica deve essere praticata a tutti i livelli aziendali.

In Italia, molte persone non hanno avuto un’educazione emotiva nelle scuole, il che rappresenta una sfida. Tuttavia, in nazioni come la Danimarca, l’educazione emotiva è stata integrata da anni, e si nota una differenza significativa nella dinamica delle relazioni tra le persone.

Spesso affermi che le tue decisioni hanno un impatto che va oltre te stesso. Cosa intendi esattamente?

Mi riferisco principalmente alle decisioni relazionali.

Ad esempio, le scelte che faccio riguardo mia figlia o mio figlio influenzeranno i suoi amici, il suo futuro e persino le generazioni future: questo tipo di consapevolezza è potente e anche un po’ soffocante.

È essenziale capovolgere la nostra prospettiva: invece di concentrarci solo sul breve termine dovremmo considerare l’obiettivo a lungo termine, ma questo può essere paralizzante se non siamo equipaggiati per gestirlo.

Senza gli strumenti giusti il peso di queste decisioni può diventare opprimente, influenzando negativamente le nostre relazioni perché quando gestiamo male una situazione tendiamo a distanziarci dalle persone coinvolte.

Viviamo in una società che ci spinge a prendere decisioni immediate e ad agire in modo reattivo e raramente ci viene insegnato a riflettere sulle possibili ripercussioni a lungo termine delle nostre azioni.

Il 26 settembre uscirà il tuo primo romanzo. Di cosa tratta?

È un’opera pubblicata per Einaudi e rappresenta un mix tra fiction e autobiografia; fa parte della collana “Gli Unici”, una serie che ospita libri privi di una connotazione di genere ben definita, e ne sono molto orgoglioso.

Ho passato anni tra le persone senza dimora il libro racconta le storie di alcune di queste persone: il filo conduttore, minimo ma essenziale, è l’identità e il concetto di “casa”, importantissimo perché i senza dimora sono gli unici a essere definiti in base a qualcosa che non hanno.

Raramente definiamo le persone per le loro mancanze, i senza dimora sono un’eccezione, e questo ha un impatto enorme sulla loro autopercezione e identità.

Il romanzo esplora anche la natura della solidarietà e dell’altruismo, analizzando cosa significhi veramente aiutare gli altri e come spesso possiamo essere ingranaggi di un sistema piuttosto che veri agenti di cambiamento.

Stai affrontando temi molto profondi e rilevanti: com’è parlarne in un momento come questo, dove c’è una sorta di “rigurgito” che arriva dal passato e che sembra andare contro ogni forma di empatia ed accoglienza?

Penso che la situazione in cui ci troviamo attualmente non sia solo un fallimento individuale, ma sia il fallimento di una società intera che, purtroppo, ha privilegiato determinati valori superficiali piuttosto che guardare al cuore delle persone: dobbiamo quindi mantenere viva questa consapevolezza.

Il mio romanzo “I Sopravviventi” cerca di mettere in evidenza questo aspetto, e la scelta del titolo non è casuale: i senza dimora non sono realmente vivi come la maggior parte di noi conosce la vita.

Sopravvivono giorno per giorno, intrappolati in una realtà in cui non hanno accesso alle cose che danno significato e gioia alla nostra esistenza – una casa, amicizie, relazioni, affetto e uno scopo; sono costantemente in lotta per soddisfare i bisogni più basilari, come trovare cibo, un luogo sicuro dove dormire e proteggersi dagli elementi.

Ecco perché ho scelto il titolo “I Sopravviventi“: riflette la loro realtà cruda e quotidiana.

Negli Stati Uniti, si osserva una crescente intersezione tra la crisi degli oppiacei e la popolazione senza dimora, con molte persone che diventano dipendenti da farmaci trasformati in stupefacenti. Come si presenta la situazione in Italia a questo riguardo?

Il mio libro è ambientato nei primi anni 2000, un periodo che ho scelto con intenzionalità: durante quegli anni, ho avuto la fortuna di incontrare molti senza tetto e ho anche potuto sperimentare le sfide che si presentano a livello istituzionale.

Stranamente, leggendo il libro oggi, si potrebbe pensare che sia ambientato nel presente, questo perché le tematiche sono sorprendentemente simili: immigrati per strada, tossicodipendenti, alcolisti, tutti riconosciuti sotto l’etichetta generica di “senza tetto”.

Mentre ciascuna di queste categorie ha bisogno di interventi mirati, nella percezione comune sono tutti raggruppati insieme, etichettati come barboni o clochard… Sembra che nulla sia cambiato in tutti questi anni.

Anche nel contesto della genitorialità c’è tanta generalizzazione, basti pensare a tanti padri separati o divorziati che, a causa di un sistema giuridico imperfetto, si trovano in situazioni ingiustamente complesse: che ne pensi?

Purtroppo ciò che stiamo osservando è l’applicazione del patriarcato nella giurisdizione.

Tradizionalmente si considera che i figli appartengano alla madre, mentre il padre ha il ruolo di “pater familias”, responsabile di fornire sostentamento: questa percezione obsoleta viene applicata in maniera così rigida e deterministica che spesso le sfide reali e le dinamiche familiari vengono ignorate.

Ciò che dovremmo fare è valutare ogni situazione individualmente, comprendendo le capacità e le esigenze di ciascun genitore.

Molti dei miei colleghi non sono d’accordo con la mia prospettiva e sostengono che la mia visione vada oltre la semplice formazione o il coaching: però io credo fermamente nell’umanesimo e nell’idea che la paternità dovrebbe essere vista come un atto politico.

Se il vero obiettivo del coaching è la felicità, allora i padri dovrebbero iniziare a considerare il loro ruolo paterno come una responsabilità politica, e credo che la mia felicità sia anche legata alla promozione di questo messaggio.

Nonostante le sfide che ho affrontato, sono soddisfatto della direzione in cui mi sto muovendo e dell’energia che sto investendo in questa causa.

Ringraziamo Girolamo per il tempo che ci ha dedicato dandoci l’opportunità di chiacchierare insieme, condividendo idee e riflessioni davvero molto potenti.

Cogliamo anche l’occasione per fargli un grosso in bocca al lupo per l’uscita del suo romanzo “I sopravviventi” che non vediamo l’ora di leggere!