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Brand identity: dalla mission ai valori, viaggio alla scoperta dell’identità di una marca e della sua importanza

Stella Fumagalli

Tempo di lettura: 10′

In un nostro precedente approfondimento abbiamo scritto di come un’azienda può raccontare una storia memorabile, facendo appello alle emozioni del proprio pubblico di riferimento e con la quale i propri interlocutori si possano identificare.

Abbiamo visto come un brand può soffrire in maniera significativa a causa di dichiarazioni infelici delle persone che lavorano in un’azienda e le cui opinioni – agli occhi del pubblico – passano ad essere quelle dell’azienda stessa (come quando Guido Barilla prese una posizione netta contro gli omosessuali in relazione con il suo brand) ma – per la stessa ragione – determinate azioni possono far guadagnare punti a un’azienda agli occhi dei consumatori (ad esempio in seguito alla donazione di 2,5 milioni di dollari da parte di Jeff Bezos – CEO di Amazon – per la campagna a favore del referendum per l’introduzione dei matrimoni gay a Washington).

A risentirne in negativo o in positivo delle azioni e dichiarazioni dei singoli è l’identità del brand o – in inglese – la brand identity: di cosa si tratta?

Cos’è la brand identity?

Il concetto di identità di brand (o di marca) fa riferimento al modo in cui il brand si presenta, al modo in cui “agisce” nel suo insieme, ai valori a cui vorrebbe essere associato agli occhi del pubblico: in parole povere, è come il brand desidera apparire ai consumatori.

Bisogna fare attenzione a non confonderla con la brand reputation (il valore/significato che il pubblico associa alla marca, come il brand viene visto dagli altri) o con la brand image (l’idea che un consumatore si fa nel tempo riguardo alla personalità di un’azienda attraverso le sue qualità e i suoi difetti – immaginari o reali – frutto di pubblicità ed esperienza diretta con il brand); sia la brand reputation che la brand image sono influenzate dall’identità di brand.

Per fare un po’ di chiarezza su cosa sia la brand identity possiamo aiutarci utilizzando il prisma di Kapferer, un professore che nel 1996 ideò un metodo di rappresentazione dell’identità di brand particolarmente efficace.

La brand identity diventa quindi un prisma esagonale composto da 6 elementi principali che stanno tra l’immagine che il brand vuole trasmettere e quella che il pubblico percepisce:

Fonte immagine: http://bit.ly/2Mtgu4O
  1. Physique: gli elementi della marca che fanno riferimento a un aspetto fisico (il rosso viene subito associato alla Coca-Cola, per esempio)
  2. Personality: la personalità che viene attribuita alla marca (sofisticata, casual, divertente, etc.)
  3. Culture: sono i valori e gli aspetti culturali che contraddistinguono una marca (per Coca-Cola ad esempio sono felicità, divertimento, famiglia, condivisione, etc.)
  4. Relationship: la relazione che il brand stabilisce con le persone, come il brand desidera connettere con i suoi interlocutori
  5. Self-image: è l’immagine che il consumatore ha di sé in seguito all’uso della marca, fa riferimento quindi a come le persone si sentono utilizzando i prodotti di un determinato brand
  6. Reflection: sono le aspirazioni del pubblico di riferimento, “stereotipi” (che i brand usano per le proprie campagne promozionali), la proiezione di un certo modello di comportamento; nonostante un brand possa avere un target di pubblico molto ampio e segmentato, la reflection fa riferimento solo a un tipo di interlocutore, l’acquirente “per eccellenza”.

Physique, relationship e reflection fanno parte degli aspetti esteriori dell’identità di brand mentre personality, culture and self-image fanno parte di quelli interiori.

La brand identity è infatti costituita da vari elementi che vanno a comporre il “vestito” della marca e che devono essere coerenti fra loro: il nome, il payoff, il logo, il colore, gli stili grafici, etc.

In questo articolo però non ci occuperemo del “vestito” dell’identità di brand ma della sua sostanza, ovvero la mission di un’azienda e il modo in cui il brand decidere di raggiungere gli obiettivi che si è prefissato attraverso la cultura aziendale e i suoi valori.

Brand identity e core mission

Un’altra importante distinzione che bisogna fare è quella tra la brand identity e la core mission di una marca, ovvero l’obiettivo di un’azienda che – di solito – rimane inalterato nel tempo.

La mission (che è uno degli aspetti che costituiscono l’identità di brand e che definiscono l’azienda) stabilisce chiaramente cosa è importante per l’azienda e cosa non lo è, comunicando la direzione in cui l’azienda ha intenzione di andare e ciò che si propone di raggiungere.

In un interessante articolo di Salim Ismail l’autore propone vari esempi di “massive transformational purpose” (MTP), ovvero le mission che stanno dietro ad alcune delle aziende più importanti ed innovative al mondo.

Dal “Organize the world’s information” di Google al “Ideas worth spreading” di TED passando dal “Positively impact one billion people” di Singularity University, queste core mission sono dichiarazioni con le quali le persone si identificano, e chi lavora per queste organizzazioni lo fa per un obiettivo che va al di là del quotidiano (e, per questo motivo, fa fatica ad accettare alcuni compromessi, come è successo agli impiegati di Google quando l’azienda ha deciso di realizzare una versione censurata del motore di ricerca per la Cina).

Dalla core mission ai core values (i valori dell’azienda)

Abbiamo detto che la core mission è l’obiettivo che un’azienda si propone di raggiungere: il modo in cui il brand decide di raggiungerlo viene “stabilito” dai core values, ovvero i valori dell’azienda.

Al giorno d’oggi è molto importante per un’azienda stabilire i suoi valori: come avevamo già accennato nel nostro approfondimento sullo storytelling, il 72% dei millenial e degli Z generation sono dispositi a pagare di più per prodotti o servizi che si impegnano contro il cambio climatico o il sociale (contro solo un 51% dei baby boomers).

I brand sempre più cercano di distinguersi dai competitors non per il prodotto che offrono ma per i valori che difendono e che condividono con il pubblico: le aziende passano da essere product-oriented a brand-oriented.

Un concetto sempre più diffuso (e cercato da clienti, dipendenti, e in generale dalle figure che si interfacciano con l’azienda) è che questa si muova nel rispetto delle “3 P” di cui avevamo già parlato nel post dedicato alla gamification: People, Planet, Profit (persone, pianeta, profitto – quindi un impegno a livello sociale, ambientale ed economico).

Il marketing è infatti passato ad essere collaborativo, culturale e spirituale: il suo proposito è quello di fare del mondo un posto migliore, i clienti non vengono più visti come meri consumatori ma come persone con esigenze materiali e spirituali e i valori assumono un ruolo decisamente centrale.

Stabilire i valori di un’azienda

I valori di un’azienda sono una sorta di promessa che il brand fa e che deve mantenere sempre, ma anche una dichiarazione di intenti, di identità e una presa di posizione.

Quando Coca-Cola in occasione del Gay Pride di Milano ha lanciato la lattina “Love” invitando le persone a condividere le proprie foto sui social utilizzando l’hashtag #LoveisLove ha preso in maniera netta una presa di posizione in favore dei diritti degli omosessuali.

Fonte immagine: http://bit.ly/2Lm0M68

Il pubblico di riferimento di un brand dovrebbe essere in grado di identificarsi con i valori della marca: certo, in alcuni casi sarà più facile poiché si tratta di valori condivisi dalla maggior parte delle persone ma – in ogni caso – è dargli sostanza che fa la differenza.

Per questo bisogna pensarci due volte prima di dichiarare che la nostra azienda lavora in modo “etico”, “responsabile”, e che la sua filosofia è “incentrata sul cliente”: se dichiariamo questi valori stiamo suggerendo che c’è un’alternativa che avremmo potuto prendere in considerazione, ovvero quella di lavorare in maniera immorale, irresponsabile e avendo a cuore solo l’interesse dell’azienda.

Quelli che abbiamo appena menzionato (ed altri ancora) sono valori che dovremmo dare per scontato: è praticamente impensabile – o almeno ce lo si augura – di metterli in discussione, sia come aziende sia come singolo.

Più che dichiararli, allora, è meglio metterli in atto in modo concreto e spiegare quello che si sta facendo; Google – ad esempio – è sempre stato in prima linea per la difesa dell’ambiente: non solo infatti usa energia che proviene esclusivamente da fonti rinnovabili ma è alla continua ricerca di metodi per consumare energia in una maniera sempre più efficiente grazie a complessi algoritmi di machine learning e automazione.

Fonte immagine: http://bit.ly/2o8jTaG

Ricordiamo infine che i valori di un’azienda non devono essere confusi con i valori della categoria di cui quell’azienda fa parte; facciamo un esempio: siamo un supermercato che vende prodotti biologici, ma non possiamo dichiarare che un nostro valore è prescindere dai pesticidi chimici.

L’assenza di pesticidi chimici è un carattere distintivo dell’agricoltura biologica, quindi è una caratteristica condivisa da tutti i supermercati o i negozi che vendono prodotti e verdura bio, non solo dal nostro supermercato.

Il supermercato in questione però, per tornare alla capacità di un brand raccontare cosa si sta facendo di concreto per mettere in atto i principi che gli stanno a cuore, potrebbe investire ogni anno una percentuale dei suoi guadagni nella ricerca per migliorare l’efficienza delle colture che non impiegano pesticidi chimici: dichiarando il suo impegno, trasmette un valore personale ed unico.

Brand identity e cultura aziendale

La cultura aziendale fa parte della brand identity: i valori che un brand fa propri e con cui desidera essere associato vengono anche ricercati nei candidati che desiderano lavorare in quell’azienda (o ai quali l’azienda si interessa direttamente).

La cultura aziendale può essere uno dei mezzi attraverso i quali un brand si propone di portare avanti un cambiamento: prendiamo l’esempio di Buffer, una piattaforma di social media marketing management.

Uno dei loro valori è la trasparenza e hanno fatto molto di più che dichiarare di essere trasparenti: sul sito della compagnia pubblicano costantemente ciò che fanno in azienda, i loro profitti, il salario di ogni dipendente, come vengono utilizzati i soldi che guadagnano e perfini i libri che i membri del team stanno leggendo in quel momento!

Fonte immagine: http://bit.ly/2BFEz3x

Hanno dato un senso alla dichiarazione di “essere trasparenti”: hanno investito per trovare risorse e strumenti per poter davvero essere cristallini e poter farlo con facilità.

Prima abbiamo detto che la cultura aziendale è uno dei mezzi per promuovere il cambiamento: in un’azienda come Buffer, che rende pubblici e alla portata di tutti i salari dei propri dipendenti, ci può essere spazio per una discriminazione basata sul sesso a causa della quale le donne prendono meno degli uomini? Davvero difficile.

Rendere pubblici gli stipendi di chi lavora in un’azienda serve per risolvere in via definitiva il problema della disparità salariale tra uomini e donne? Certamente no, ma è di certo un buon punto di partenza per cambiare le cose e rendere il mondo lavorativo un posto giusto.

Autenticità: benefici e rischi

L’autenticità è uno di quei valori che non si dovrebbe dichiarare, ma che dovremmo semplicemente mettere in pratica giorno dopo giorno nel nostro operato come azienda.

C’è chi però cerca di dare una serie di valori “di facciata” per proiettare un’immagine positiva di sé mentre la realtà dei fatti è parecchio diversa.

E’ il caso delle aziende che fanno greenwashing, pinkwashing o rainbowashing: cosa significano queste espressioni?

Con greenwashing si intende la pratica di certe aziende che che vogliono trasmettere un’immagine positiva circa le politiche di protezione e salvaguardia ambientali ma che in realtà impiegano processi produttivi dannosi per l’ambiente.

Fonte immagine: http://bit.ly/2Lm9dhK

Pensiamo ad esempio a un brand di assorbenti interni senza applicatore in plastica che dichiara che usando il suo prodotto ogni donna eviterebbe la produzione di una certa quantità di rifiuti all’anno.

Tuttavia dietro la produzione di prodotti come i tamponi ci sono enormi quantità non dichiarate di insetticidi, pesticidi, fertilizzanti e altri prodotti chimici utilizzati nei campi di cotone (che poi viene utilizzato per produrre gli assorbenti): con tutte le carte in tavola il brand in questione potrebbe davvero dire di agire nel rispetto dell’ambiente?

Pinkwashing e rainbowashing invece indicano la promozione di tematiche e campagne legate ai diritti delle donne o della comunità LGBT per nascondere altri aspetti negativi (nel caso delle aziende legati ai prodotti, alla produzione, alle politiche interne, etc.).

Fonte immagine: http://bit.ly/2P3ea1g

Un esempio è l’iniziativa di KFC – catena di ristoranti di pollo fritto – e del suo cestino di pollo fritto in versione rosa grazie al quale avrebbe donato 0,50 dollari per ogni acquisto a un’associazione per la cura contro il cancro al seno.

Per quanto possa trattarsi di un’iniziativa lodevole c’è un evidente problema di consapevolezza: è stato infatti dimostrato che il consumo di carne fritta aumenta il rischio di tumore al pancreas, al colon, al retto e anche al seno, una situazione che catene come quella menzionata, in assenza di obblighi di legge, non mettono in evidenza sui propri prodotti.

Ma il pinkwashing o il rainbowashing possono spingersi ancora più in là ed essere messi in pratica addirittura dai governi, come successe quando Israele cercò di promuovere il turismo a Tel Aviv finanziando una serie di campagne che trasmettessero l’idea di una città moderna e gay-friendly mentre il Medio Oriente continua ad essere una zona del mondo in cui le donne e i gay vengono maltrattati in quanto tali e dove continuano ad esserci violazioni dei diritti umani della popolazione palestinese.

Fonte immagine: http://bit.ly/2NcRdIy

Se da una parte ci sono questi rischi, però, dall’altra ci sono anche grandi aziende che si innestano in una conversazione con la società e dimostrano la volontà di andare nella giusta direzione.

Sono spinte che arrivano sia dal basso che dall’alto (come i gruppi organizzati di dipendenti Microsoft ai Gay Pride) da parte di aziende che non sono neutre ma che si portano dietro valori e prendono posizioni nette (come quando Google lanciò una raccolta fondi per la crisi dei rifugiati raddoppiando di tasca propria le donazioni) e vogliono dare un messaggio chiaro (come ha fatto recentemente Netflix in occasione del Gay Pride a Milano).

Coerenza

Va di pari passo con l’autenticità; pensiamo di essere un’azienda italiana che dichiara di voler difendere il Made in Italy come promozione di un’eccellenza in positivo (non con un’accezione di protezionismo che farebbe ricadere il brand in una serie di dinamiche negative): in questo caso non possiamo poi cercare fornitori fuori dai confini nazionali o vendere prodotti fabbricati all’estero.

A parità di qualità ci verrebbero a costare meno? Può darsi, ma dobbiamo rimanere fedeli a ciò che abbiamo dichiarato come valore (per questo è importante pensare con attenzione alle possibili conseguenze dei valori aziendali quando li stabiliamo).

In conclusione

Il brand è un elemento fondamentale che influenza in maniera determinante il processo d’acquisto, anche al di là della sostanza del prodotto: “scelgo questo telefono perché ho sempre comprato questa marca e mi sono sempre trovato/a bene” o ancora “compro questa marca perché voglio il meglio del mercato” sono frasi che abbiamo sentito (e magari pronunciato) più di una volta.

Il marchio diventa a tutti gli effetti un vero e proprio asset, misurato ed inserito a bilancio sotto forma di brand equity, con valori che per i marchi più importanti possono arrivare a miliardi di euro.

Il crescente valore del marchio nell’economia moderna, nel rapporto con consumatori sempre più attenti a quello che acquistano al di là del prodotto stesso, è un importante messaggio anche per le realtà più piccole: prestare attenzione alla propria brand identity e impegnarsi per costruire una brand equity dal valore crescente è un investimento che può dare grandi soddisfazioni, partendo dalla sostanza dei valori che si vogliono far crescere; ogni azienda e perfino ogni singolo professionista può fare le sue scelte e dare forma e colore al suo mattoncino, che contribuirà a costruire il suo futuro e quello della società in generale.